Casa delle Donne: non si sfratta la solidarietà

di Elisa Gianni

Ogni ambiente fisico, libero e spontaneo andrebbe difeso a prescindere, soprattutto nell’epoca dei byte. A ogni spazio, aperto o chiuso, piccolo o grande, sia esso casa, ufficio, scuola o giardino, andrebbe riconosciuto lo status di potenziale contenitore di umanità, per la sola e semplice condivisione coatta dello spazio-tempo.

Se si aggiunge, a queste caratteristiche, una componente democratica e la pluridecennale utilità sociale e culturale, la risultante è un luogo come la Casa Internazionale delle Donne di Roma, su cui da qualche giorno pende la scure dello sfratto. I mancati pagamenti dell’affitto si sono assommati per anni, il debito si è ingrossato e adesso la giunta capitolina vuole riprendersi i locali. 

Il convento del Buon Pastore alla Lungara era una casa di correzione: il marchese Baldassarre Paluzzi Albertoni ne aveva finanziato la costruzione nella prima metà del Seicento, perché diventasse “un ospizio per le donne che volevano riparare ai loro peccati con una vita penitente”. Oggi, questo stesso spazio è il polo fisico di più di quaranta associazioni per i diritti e la salute delle donne, è un centro congressi, è una biblioteca, una foresteria – a cui si aggiunge la valenza storica di uno spazio dove si sono discusse, vissute e poi raccontate in prima persona le lotte per i diritti delle donne, dove si è imparato e poi insegnato a vivere con sé stesse, a vivere insieme, a non avere paura. I momenti di incontro reale, in uno spazio simile, sono incalcolabili e incalcolabile ci pare la perdita di questo potenziale.

Per questo alziamo lo sguardo su quello che sta accadendo alla Casa Internazionale delle Donne e la prendiamo come esempio per ribadire che ogni portone chiuso lascia fuori qualcuno, ogni spazio negato è un’occasione mancata di condivisione, crescita e solidarietà.

Non è solo attraverso la voce, né solo attraverso la parola e tantomeno solo attraverso l’immagine che è possibile comprendere il vissuto dell’altro. Un messaggio del genere ha una dimensione necessariamente totale, quasi ultrasensoriale: accoglierlo è restare umani e implica il coraggio (e la fatica) di esserci. 

Difendere la Casa Internazionale delle Donne è difendere i luoghi portatori sani di idee, è stare dalla parte delle orgogliose e testarde testimonianze di umanità.