Il diritto umano di dominare /Libro

di Christian Elia, Q Code Mag

Nulla è doloroso quanto guardare dentro di sé. Una cultura, una formazione, una rotta da seguire: i diritti umani per almeno tre generazioni hanno rappresentato una bussola, un codice per interpretare i fatti e per disegnare un mondo.
Ed è stata per molto tempo, quello dei diritti umani, una cosmogonia rassicurante, definita nella misura in cui rendeva percepibile il giusto e lo sbagliato. Lo strumento, il corpus (dottrinale o meno) che dotava i cittadini degli strumenti per proteggersi dagli abusi del potere, che risiede negli stati.
Questo legame, però, ne mostra anche il limite. Perché il ricorrere della vittima alle strutture del carnefice è una grande contraddizione, che finisce, in certi casi, per legittimare l’oppressore.

Il diritto umano di dominare, nottetempo edizioni, è un libro che riflette.
I suoi autori, Nicola Perugini e Neve Gordon, passano al setaccio un rovesciamento di senso che da un lato restituisce quanto comunque è stato fatto, ma dall’altro mette in guardia su un processo di ‘inversione’ che rischia di rendere i diritti umani una scatola vuota.
Oggi, nelle accademie militari e in quelle di polizia, il corso dei diritti umani è obbligatorio. Allo stesso tempo, con i casi studio del contesto israelo – palestinese e una serie di esempi dagli Stati Uniti, dal mondo dei pro-life a quello delle lobby delle armi, è evidente un fenomeno di appropriazione del bagaglio dei diritti umani.
Ecco che, come emerge prepotentemente quale enorme sia stato il risultato ottenuto nel portare in campo una dialettica sui diritti, il rischio enorme è quello di assistere a un rovesciamento di senso, che porta i coloni israeliani a raccontarsi come vittime, usando lo stesso lessico che li accusava.
Perugini e Gordon analizzano, in questo senso, lo stesso operare delle ong più importanti che, da Amnesty a Human Rights Watch, passando per B’Tselem in Palestina, paiono un po’ smarrite, tra le maglie del relativismo narrativo che sta svuotando di senso i diritti umani.

A cominciare da un approccio ‘legalitario’ che, in fin dei conti, lascia alla sfera istituzionale il monopolio dell’azione ‘umanitaria’. Se non sono civicamente, eticamente e filosoficamente rivoluzionari, i diritti umani semplicemente non sono.

Quel che convince, al netto di una serie di riflessioni dure e ragionate, è che non c’è nessun comodo rifugio, né nel ‘complottismo ‘ da internazionale dell’imperialismo, né dietro un monolite nero e indiscutibile dei diritti umani.
Il contributo di Perugini e Gordon è dinamico. I diritti umani sono così preziosi, che vanno difesi da ogni tentativo di cristallizzarli. Sono mutevoli come lo sono i rapporti di potere, vanno tenuti in fieri, sempre, per proteggerli dal potere che – sentendosene minacciato – tenta di farli propri.

Da un lato emerge con chiarezza che se tutto un mondo, dai militari a quello delle istanze dell’estrema destra, ha visto nel discorso sui diritti un nemico pericoloso, al punto da imitarne il linguaggio, vuol dire che è stato fatto un gran lavoro.
Ma proprio questa appropriazione rende il lavoro mai finito, per usare la riflessione e la pratica dei diritti umani per scardinare quei sistemi che escludono, invadono, opprimono, discriminano.

E per farlo, è fin troppo ingenuo pensare di ricorrere a quegli stessi sistemi.

Il diritto umano di dominare è un punto di sintesi su quanto è stato fatto finora, ma è anche un allarme, rispetto a come “il linguaggio e il potere dei diritti umani sono diventati una preziosa risorsa per chi aspira al potere, perché garantiscono legittimità e rispettabilità”.
Questa è la rotta: impedire che i diritti umani diventino strumento di vuota retorica. Evitare che una malnata idea di ‘neutralità’ finisca per rendere senza mordente il discorso dei diritti, incapace ormai di riconoscere l’oppresso e l’oppressore.
Se i diritti umani, e chi si batte per loro, diventano una zona grigia, dove tutto conta uguale, non ci sarà più quella tensione a porre l’accento sulle condizioni che precedono la violazione, finendo per avvitarsi sulla violazione stessa, uguale per tutti.
La denuncia di una violazione, l’equidistanza tra gli attori, non è un merito. E’ complicità.