Donne anello debole delle migrazioni?

di Angelo Miotto
Il punto di domanda, alla fine delle testimonianze ascoltate nel Talk che abbiamo organizzato sabato 25 novembre all’interno del WeWorld Festival, è d’obbligo.
Il titolo è affermativo e le storie di violenze, vessazioni e schiavitù sessuale dicono tutto di questo anello debole. Eppure le due donne presenti all’Unicredit Pavillon, Lireta Katiaj e Princess Inyang Okokon, hanno raccontato di sofferenze e dolore e di una forza di reazione e ostinazione che hanno colpito nel profondo l’attenta, e numerosa, platea che ha sfidato uggia, pioggia e cielo grigio milanese.
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Con loro, moderati dal direttore del Festival dei Diritti Umani Danilo de Biasio, c’era Don Mussie Zerai, scappato dall’Eritrea, paladino dei diritti dei migranti, appena tornato da una cinque giorni che lo ha scosso nel profondo, a Calais, Francia, dove ha visto violenze e disumanità delle divise contro i minori non accompagnati che ancora vivono e sopravvivono là dove c’era la Jungle, poi data alle fiamme, poi sgomberata.
Princess Okokon era vittima di tratta, fino a quando ha trovato la forza e un aiuto forte per ribellarsi. A lei è stato consegnato il Premio Reset Diritti Umani, dalle mani del Presidente Paolo Bernasconi con questa motivazione:
L’Associazione Reset – Diritti Umani premia Princess Inyang Okokon perché è un bellissimo esempio di riscatto e di impegno. Princess Inyang Okokon ha curato le sue ferite di vittima della tratta occupandosi concretamente delle prostitute, costruendo le condizioni per una vita alternativa a chi è già sulla strada e investendo nella prevenzione direttamente nei paesi di provenienza.
Quest’opera meritoria, che ha funzionato già in centinaia di casi, è stata possibile perché l’associazione PIAM, fondata da Princess insieme a suo marito Alberto Mossino, è riuscita a stringere alleanze positive con le istituzioni locali, nazionali e con la società civile. Per questi motivi l’Associazione Reset – Diritti Umani premia il percorso di Princess Inyang Okokon: perché l’alto valore umano della sua azione sia onorato e meglio conosciuto. E anche perché sia di esempio.

Lireta Katiaj non è riuscita a contenere una fortisima commozione quando ha ricordato la sua storia, che ha affidato a un libro/diario “Lireta non cede. Diario di una ragazza albanese” (Terre di Mezzo editori) e che ha ripercorso in sala dal viaggio in gommone con la figlia di tre mesi stretta fra le braccia, al ceffone del poliziotto appena sbarcata, alla difficoltà di ricostruirsi una vita, che ora c’è e che vive in Sicilia, con il compagno e i figli.


Infine Don Mussie Zerai. La sua denuncia è forte, potente, contro l’Europa della ricchezza che si disinteressa della povertà del migrare, la sua testimonianza sulle violenze che vengono perpetrate non solo dai trafficanti di uomini, ma dalle divise delle polizie di stati democratici è senza peli sulla lingiua, diretta e chiama in causa una parola sfregiata, Umanità.
 
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