IRAN, LA CAMPAGNA SILENZIOSA DELLE DONNE

Marina Forti a colloquio con Nahid Tavassoli
27 dicembre 2015

Il movimento delle donne ha lanciato la sua campagna elettorale, in Iran. L’obiettivo è presentare una valanga di candidate. Nel prossimo febbraio infatti gli elettori iraniani voteranno per il parlamento nazionale e per il Consiglio degli Esperti, l’organismo di giuristi islamici che ha il fondamentale compito di eleggere il Leader supremo, prima carica dello stato. Dopo l’accordo sul nucleare, con le sanzioni prossime a cadere e diversi gruppi di interesse che si scontrano dietro le quinte, questo sarà un voto importante per ridefinire gli equilibri di potere all’interno della Repubblica Islamica.
Dunque anche le donne sono in campo: puntano al Parlamento. La loro campagna è però cominciata in sordina. Corre per vie informali, emerge nei discorsi di una nota sociologa, ne accenna en passant una giovane documentarista. Qualcuno mi rimanda a un breve testo circolato sui social media, dal titolo «Campagna per cambiare il volto maschile del parlamento»: dice che «le donne hanno responsabilità (…) in campo economico, sociale e culturale. È tempo che prendano posto anche nell’assemblea legislativa», ed è firmato “un gruppo di donne attiviste per i diritti civili”, 8 novembre.
«Abbiamo lanciato questa campagna perché le donne, come cittadine, entrino in parlamento», mi dice Nahid Tavassoli, nota studiosa, editrice, e attivista per i diritti delle donne. Laureata in letteratura inglese, PhD in lingua e letteratura iraniana antica, Tavassoli ha fondato il magazine letterario Nafeh (ma di recente ha sospeso le pubblicazioni, per motivi finanziari: «Non mi rassegno all’idea di farcirlo di pubblicità»). Rivendica il suo essere musulmana e femminista. È una veterana delle battaglie per i diritti delle donne in Iran: così mi sono rivolta a lei per sapere di più su quell’appello che ha rimesso in moto un movimento di donne.
Curiosamente, Tavassoli non ha firmato quel testo, e come lei molte delle attiviste che pure ne parlano con entusiasmo: alcune trovano riduttivo l’obiettivo di eleggere un terzo del parlamento. Altre obiettano che non si tratta di numeri e facce femminili, ma di dare rappresentanza alle rivendicazioni delle donne. Eppure l’appello circola e raccoglie sostegni. Parla di rappresentanza e seggi parlamentari, ma sarebbe riduttivo farne una questione di “quote”: la campagna per le candidature femminili va ben oltre, è un nuovo tassello nella battaglia delle donne iraniane per conquistare la vita pubblica. Vediamo perché.
La campagna per “cambiare faccia” al parlamento iraniano è cominciata con alcuni incontri, a Tehran, in cui si sono ritrovate attiviste già note e molte donne più giovani, studentesse. Quasi un incontro tra generazioni: «Anzi, le giovani sono molte più di noi “anziane”. Sono coraggiose, hanno energia, sono determinate, e non hanno paura», dice Tavassoli. Le assemblee si ripetono ogni due settimane, di solito presso qualche associazione, o libreria, o luoghi simili. Le attiviste preparano manifesti, organizzano incontri pubblici: «Non solo a Tehran ma in ogni città, in provincia, nei villaggi. Il primo obiettivo è raccogliere il maggior numero possibile di candidate, non solo nomi noti ma tutte quelle che dimostrano la capacità, l’autorità, il sostegno per farsi avanti».
Attorno a quell’appello si è costituita una coalizione tra donne di diversa estrazione culturale e politica. C’è un precedente: la campagna “Un milione di firme per l’eguaglianza di fronte alla legge”, lanciata una decina d’anni fa da un gruppo composito di donne (Nahid Tavassoli era tra loro). Anche allora c’erano giovani femministe più o meno laiche insieme a esponenti della “sinistra islamica”, c’erano avvocate e attiviste per i diritti civili, e poi c’era la sponda di alcune deputate riformiste e donne nelle istituzioni. Hanno cominciato a raccogliere firme su una petizione per abrogare le leggi e gli articoli del codice civile che discriminano le donne. Giravano tutto il paese, organizzando incontri e assemblee pubbliche, perché ogni firma fosse un’adesione ragionata. Nessuno sa di preciso quante ne abbiano raccolte: alla fine molte schede sono state sequestrate e distrutte, molte attiviste arrestate. Era un momento di passaggio: l’Iran veniva da otto anni di presidenza del riformista Mohammad Khatami, che aveva segnato grandi aperture nella società, la nascita dei primi media indipendenti, un’esplosione di gruppi e associazioni della società civile. «Le donne avevano conquistato molti spazi», ricorda Tavassoli. Poi però, quando la campagna del “milione di firme” stava iniziando a decollare, è cominciata la presidenza di Mahmoud Ahmadi Nejad, che ha segnato un brusco arresto per i diritti civili in Iran. «Alcuni gruppi di donne hanno continuato a lavorare, ma in sordina, non c’erano più spazi pubblici dove esprimersi». Nel 2009, dopo la contestata rielezione di Ahmadi Nejad e la più grande ondata di proteste mai vista nella storia della Repubblica islamica, la repressione ha messo fine anche alla campagna delle donne: «Molte attiviste sono state arrestate, altre sono uscite dal paese», dice Tavassoli.
Anche per questo la nuova campagna del movimento delle donne è importante: segna un ritorno. Negli ultimi due anni la società iraniana ha ricominciato ad aprirsi – si vede dalla vita culturale, il cinema, l’editoria, gli spazi pubblici che tornano a moltiplicarsi. Non che siano scomparse tensioni e censure, come dimostra il caso del magazine Zanan-e Emruz (“Donne d’oggi”), costretto a sospendere le pubblicazioni lo scorso aprile dopo alcuni articoli sulla rivoluzione nei costumi dei giovani, che ora è però tornato in edicola. «Molti gruppi femminili hanno ricominciato a lavorare, sebbene con cautela», osserva Tavassoli: «Il controllo è forte eppure il governo, e anche il clero, hanno cominciato a capire che le donne non sono quelle di 20 anni fa. Oggi sono più consapevoli dei loro diritti».
Nahid Tavassoli si definisce una «femminista islamica», e non vede incompatibilità tra i due termini. «Si tratta di decostruire l’interpretazione consolidata del Corano per costruirne una nuova», dice. Parla di un «nuovo pensiero islamico». Le Scritture sono state rivelate ai Profeti, osserva, ma poi sono stati gli uomini a interpretarle. Cita l’intellettuale e femminista marocchina Fatima Mernissi. Contesta la lettura degli Hadith (la “consuetudine”). «Se rileggiamo i testi in modo moderno, ci accorgiamo che parlano di eguaglianza, giustizia, e di diritti umani – umani, non “degli uomini”». I miti sulla presunta vocazione delle donne a essere subordinate sono incrostazioni patriarcali, insiste Tavassoli. «Tutti gli esseri sono stati creati uguali: il messaggio dell’Islam è unità e uguaglianza». Le donne, afferma, hanno cominciato a riprendere il potere su se stesse e «rivendicare i propri diritti: dal diritto al piacere sessuale a quello di prendere parte alla vita pubblica».
Non c’è che dire, la modernità prende cammini tortuosi. «Ai tempi dello Shah avevamo donne in chador e altre in bikini. Le tradizionaliste da un lato, una élite estremamente libera dall’altro: un paradosso», continua Tavassoli, che appartiene a una generazione di donne musulmane che ha lavorato per la rivoluzione. «Prima, solo una piccola élite di donne era nello spazio pubblico. Uno degli effetti della Rivoluzione islamica è che anche le famiglie tradizionaliste hanno mandato le donne fuori casa – o meglio, sono le donne stesse che hanno trovato la via per uscire». Fatta la rivoluzione però le iraniane si sono sentite dire che il loro posto era tra le pareti domestiche, segregate dalla società più ampia, umiliate da nuove leggi di stato civile ispirate alla lettura della legge religiosa che Tavassoli contesta. L’imposizione più simbolica di tutte è stata l’obbligo del hejjab, l’abbigliamento islamico (diventato così a tutti gli effetti un simbolo politico, più che morale: tanto che oggi in Iran molte persone che si definiscono religiose lo contestano).
«Ormai però le donne avevano visto cosa c’è fuori dalla finestra», continua Tavassoli, e in casa non ci sono rimaste. «Le donne iraniane sono nella vita pubblica, questo è un fatto: lo vedi dai tassi di istruzione, o dal fatto che il 60% degli studenti universitari sono ragazze». Insomma: l’appello per le candidature femminili è solo l’ultimissima battaglia di un movimento di donne decise a riprendersi lo spazio pubblico.
La campagna delle donne si è strutturata in tre “comitati”. Il primo si chiama «io sarò una candidata: il diritto a votare non basta, vogliamo il diritto a essere elette». Naturalmente questo diritto in teoria esiste: in Iran, spiega Tavassoli, «le donne hanno diritto di voto attivo e passivo dal 1963. Ai tempi dello Shah le elette erano pochissime appartenenti alla élite: ma non doveva essere così anche dopo la Rivoluzione. Invece non abbiamo mai avuto più di 25 o 26 deputate, su 290 seggi. Le donne non sono state incoraggiate a candidarsi, e quelle che ci hanno provato non sono state benvenute».
Il secondo “comitato” si chiama «individuare 50 elette che facciano propria la piattaforma di uguaglianza giuridica delle donne». Di nuovo, è la ricerca di una interlocuzione tra le donne nelle istituzioni. Il momento è favorevole, perché note figure del riformismo sono tornate alle cariche pubbliche: come la signora Shakhindot Molaverdi, vicepresidente della repubblica con delega agli affari delle donne e della famiglia; la vicepresidente Massumeh Ebtekar, che ha la delega all’ambiente; e molte altre.
Infine c’è il comitato «cartellino rosso per i candidati misogini», una sorta di campagna per svergognare pubblicamente i candidati che si pronunciano in modo contrario ai diritti delle donne. (Ricorda la campagna elettorale per le presidenziali del 2009, quando la regista Rakhshan Bani-Ettemad aveva girato un documentario-azione con un gruppo di attiviste, We are half of the Iranian population: avevano chiesto a tutti i candidati di spiegare i propri impegni circa i diritti delle donne. Avevano risposto tutti, escluso Mahmoud Ahmadi Nejad).
Certo, non sarà facile riempire le liste elettorali di donne passando il vaglio del Consiglio dei Guardiani. Infatti, nel peculiare sistema istituzionale della Repubblica Islamica dove istituzioni elette a suffragio universale si affiancano a poteri emanati dall’autorità religiosa, il Consiglio dei Guardiani è l’organismo che vaglia le leggi approvate dal parlamento e l’idoneità dei candidati alle cariche pubbliche. «È facile prevedere che molte nostre candidate saranno respinte», osserva Tavassoli: «Ma se gli arrivano centinaia, anzi migliaia di nomi femminili non potranno rifiutarli tutti. Qualcuna passerà. E comunque la cosa farà notizia». E le donne avranno segnato un punto.
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