Plastic China al Festival dei Diritti Umani di Lugano

Il Festival dei Diritti Umani di Lugano è iniziato ieri sera con la prima proiezione, Plastic China. Fino a domenica sarà un susseguirsi di proeizioni e di dibattiti. Il programma lo trovate qui.
A tutto lo staff del Festival un augurio di buon lavoro!
Abbiamo chiesto a Gabriele Battaglia, che vive a Pechino, giornalista esperto di Cina e autore per i tipi di Milieu di ‘Buonanotte signor Mao’ una riflessione a partire proprio dal film di apertura del Festival dei Diritti Umani di Lugano.
di Gabriele Battaglia
In Cina, la raccolta differenziata non avviene a monte, bensì a valle: in quasi ogni vicolo di Pechino ci sono punti raccolta dove uomini e donne selezionano, dividono, piegano e schiacciano ciò che tu sbatti nei bidoni alla rinfusa. Poi, camion stracolmi di ex scatoloni resi ormai sottili linee di cartone, sacchi di ex bottiglie di plastica scientificamente schiacchiate e mille altri rifuti prendono la via delle discariche alla periferia della città. Diventano parte del paesaggio, quegli umani, passi e li saluti con un cenno, e quando traslochi quasi ci fai amicizia, mentre elimini tutto l’eliminabile.
 
Qualcosa di simile avviene nei condomini, dove il nuovo piccolo ceto medio ama spesso sbarazzarsi ciò che non serve più lasciandolo su scale e pianerottoli, sapendo già che nel giro di qualche giorno spariranno. Lì si misura la diseguaglianza sociale nello stato formalmente socialista: i consumatori visibili e gli invisibili spazzini.
Su scala ancora più grande, tutta la plastica del mondo finisce in Cina – si parla di 10 milioni di tonnellate l’anno – dove poi qualcuno la ricicla. Tra questi c’è la famiglia Peng, la cui vita è raccontata da Jiu Liang-Wang in Plastic China.
 
Ho visto decine di documentari indipendenti cinesi prodotti tra la fine degli anni Novanta e la prima decade degli anni Duemila. Colpiva la lunghezza del tutto fuori norma rispetto ai nostri standard. Era come se il cineasta cinese non volesse perdersi nulla di qusto Paese in trasformazione ed ebillizione: zero sceneggiatura, piazzavano la telecamera lì ed è come se tu vedessi tutto in tempo reale, del resto la Cina era “the place to be”, raccontavi qualcosa di unico al mondo.

 
Oggi l’arte cinematografica si è evoluta, Jiu racconta anche per i nostri palati fini nonostante il metodo sia sempre quello: telecamera indagatrice e nessun commento, per 80 minuti di film. La Cina raccontata è quella dove la stessa leadership di Pechino dice che convivono primo, secondo e terzo mondo. I migranti che fanno i lavori sporchi non sono come da noi “stranieri”, a meno che non si voglia considerare stranieri in patria i milioni di migranti rurali che da trent’anni tirano il boom del Paese avendo poco in cambio. Sperano in un futuro migliore e stringono i denti, è la famosa “resilienza” dei cinesi, ormai quasi un cliché. Tra questi c’è la nostra famiglia Peng, dove a un padre ormai dimesso e semi alcolizzato fa da contrappunto la figlia undicenne Yi-jie, che resiste un presente di miseria con sogni proiettati nel futuro.
 
Dare risposte a lei dovrebbe essere parte di quel “sogno cinese”, sbandierato dal presidente Xi Jinping, che diventerà presto parte integrante della costituzione del Partito comunista.