2001-2019: un altro mondo è possibile. Per ora con meno diritti

Il mondo è migliorato dal luglio 2001, quando un movimento articolato e globale ha cercato di proporre a Genova un’alternativa di sistema? Impossibile rispondere con dati scientifici, universalmente accettati. Però tra i fatti del G8 2001 e la condizione dei diritti umani 18 anni dopo qualche collegamento si può fare. Partiamo da oggi, prendendo come indicatore il rapporto 2019 di Human Rights Watch: preoccupazione per il Brasile di Bolsonaro e per il Venezuela di Maduro; le stragi del popolo rohingya in Birmania, la tragedia umanitaria dello Yemen e della Siria, le guerre dimenticate nel Congo e Ucraina. La novità dell’ultimo rapporto HRW è la sottolineatura delle proteste civili contro le violazioni dei diritti umani anche nelle democrazie autoritarie dell’emisfero Nord: le proteste contro l’involuzione antidemocratica dell’Ungheria e della Polonia; le critiche al Governo italiano sul fenomeno migranti. L’ultima edizione del Festival dei Diritti Umani è stata dedicata al tema “Guerre e Pace”, partendo dal dato che circa un quinto del pianeta si trova in situazioni di conflitto. Mary Kaldor, la studiosa che ha catalogato anni fa il concetto di “nuove guerre”. Sintetizzo per brevità cosa ha detto al pubblico del Festival: le nuove guerre non si combattono più per vincerle, ma per farle proseguire a lungo, dando vita ad un’economia parallela. Armi, varie forme di schiavismo, traffico di esseri umani in fuga, contrabbando, mercato nero e, se arrivano, anche la corruzione nella gestione degli aiuti umanitari. Sommiamo la ricognizione di Human Rights Watch con le riflessioni sentite al Festival dei Diritti Umani è una prima parziale risposta è: il mondo è peggiorato dal 2001, quando il movimento altromondialista analizzava le linee di tendenza proprio lungo questi assi: lo stato di guerra permanente stava minando anche le regole delle democrazie liberali, provando ad individuare, ad esempio, il nemico interno nel migrante. 

L’altro caposaldo del movimento di Genova 2001 è stato l’allarme per la finanziarizzazione dell’economia. Metaforicamente veniva descritta come un castello di carte che prima o dopo sarebbe crollato, trascinando con sé i ceti medio/bassi e garantendo lauti guadagni ai ricchi. Ed è successo. Oxfam ha stimato che una decina di anni dopo la grande crisi i miliardari sono più ricchi e tendenzialmente la parte più povera del pianeta deve spartirsi le briciole. L’anno scorso 26 persone possedevano l’equivalente di quanto nelle tasche di 3.800.000.000 abitanti della Terra. E la forbice si allarga. 

Ecco quindi, nuovamente, una conferma alle teorie elaborate da quella sorta di università dal basso che si era ritrovata a Genova per proporre un’alternativa di sistema agli 8 capi delle nazioni più ricche del mondo. 

Uno degli osservatori più acuti di quel periodo è stato sicuramente Alessandro Leogrande, che già nel settembre dello stesso anno sulla rivista Lo Straniero spiegava così l’accaduto. «a Genova si è realizzato un incontro tra una parte di giovani e giovanissimi europei non eterodiretti, intenti a manifestare attivamente il proprio morale “io non ci sto”, e quel poco di buono delle società italiana ed europee che ultimi quindici anni ha provato – nel volontariato, nei gruppi di base, nel giornalismo impegnato e squattrinato, in alcune operazioni di cooperazione nord-sud del mondo, nei progetti di economia “informale”, nell’ecologismo, nel pacifismo, nel femminismo…  – a ideare e a percorrere strade alternative a quelle della politica ufficiale. I modi di questo incontro hanno risvegliato il “seme sotto la neve” della società europea. Questo embrione transnazionale dalle molte lingue (a Genova si è parlato in italiano quanto in francese, in spagnolo, in inglese), a sua volta minoritario all’interno dell’happening ligure e ancora fortemente disgregato, costituisce l’aspetto più interessante di questo nascente movimento. Dalle sue capacità di azione pratica e di crescita teorica, di avviare un confronto non supinamente accettato con le regole della politica, di attingere dalle pratiche libertarie e femministe più che da quelle classicamente “novecentesche”, di sviluppare una coscienza sempre più globale e universalizzabile (kantianamente universalizzabile: nella progettazione di iniziative politiche che tengano conto degli sviluppi transnazionali e che soprattutto abbiano sempre come pietra di paragone il calcolo delle conseguenze “per tutti gli individui” di quello che si richiede), dipende la possibilità di allargamento delle idee e delle pratiche più innovative del movimento per una giusta globalizzazione. Questo “seme sotto la neve” non ha vinto; anzi, schiacciato all’irrigidimento del movimento successivo agli scontri di piazza, è fortemente in pericolo».

Alessandro Leogrande aveva visto giusto: il seme sotto la neve se non è morto non è riuscito a sbocciare. Però occorre riconoscere che la generazione successiva a quella di Genova 2001 sta fornendo segnali interessanti, a partire dall’attenzione per la distruzione dell’ecosistema portato avanti da Greta Thunberg e dai suoi coetanei. Malgrado l’oscurantismo di alcuni settori politici e istituzionali, i diritti delle persone LGBTQ sono considerati legittimi. In Vaticano c’è Papa Francesco. Quello che evidentemente manca è la politica. Non c’è da stupirsi: durante la repressione antidemocratica dei giorni di Genova si è girata dall’altra parte e adesso – troppo tardi! – si dice preoccupata per i violenti bugiardi che governano molte nazioni.

La foto di Alessandro Leogrande è di Paolo Benagiamo