Parte da Bonn, a margine dei lavori del COP23, il giro d’Europa delle delegazioni dei popoli indigeni, mai così in pericolo per la loro lotta contro uno sviluppo che uccide l’ambiente
di Francesco Martone
da Q Code Mag
“Signore e signori, mentre siamo presi a gestire e amministrare le nostre risorse, giorno dopo giorno, dobbiamo affrontare la realtà, siamo coinvolti in una vera battaglia per proteggere le nostre foreste. Siamo allarmati e preoccupati per il crescente numero di casi di violazioni dei diritti umani, di violenza contro le nostre comunità, la criminalizzazione dei nostri popoli, l’assassinio dei nostri leader. (…) Vi devo dire una cosa, la violenza è terribile. Quindi scusatemi tanto ma devo proprio dirvelo. Chi di voi è direttamente o indirettamente collegato agli omicidi, alla violenza o alla criminalizzazione dei nostri fratelli e sorelle indigeni, vergognatevi! (…).”
A lanciare questo grido d’allarme è Mina Susana Setra, indigena Dayak indonesiana, rappresentante di AMAN, la Federazione dei Popoli Indigeni dell’Arcipelago indonesiano, che rappresenta poco più di 17 milioni di uomini e donne indigene.
Mina, il fisico minuto dalla voce decisa e determinata, si sta rivolgendo alla platea del Forest Day composta da esperti, negoziatori, ONG, imprenditori, scienziati che come di norma popola uno degli eventi collaterali “clou” delle cosiddette COP, le Conferenze delle Parti della Convenzione Quadro ONU sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) tenutasi quest’anno sotto presidenza delle isole Fiji a Bonn in Germania.
Le sue parole fanno da contraltare ad una diffusa preoccupazione che aleggiava come non mai tra le delegazioni indigene e della società civile accorse a seguire i lavori della COP23.
In parte l’attenzione era dovuta al fatto che nonostante sulla carta l’accordo sul clima adottato a Parigi due anni fa riconosca l’importanza dei diritti umani e del ruolo dei popoli indigeni e delle comunità locali nel fornire soluzioni ai cambiamenti climatici, dall’altra dalle parole non sembra si voglia passare ai fatti.
Fosse solo un problema tecnico. A sentire i vari delegati indigeni, il leitmotiv era il seguente: “Bene, abbiamo lottato per anni ed anni perché fosse riconosciuto il nostro ruolo ed il nostro contributo concreto alla lotta contro i cambiamenti climatici, abbiamo ottenuto un riconoscimento ufficiale, la scienza dimostra che riconoscendo il nostro diritto alla terra si può assicurare la mitigazione dei cambiamenti climatici in maniera efficace e poco costosa. Il punto ora è che se noi chiediamo e rivendichiamo questo diritto veniamo uccisi, incarcerati, perseguitati”.
A maggior ragione se per proteggere le loro terre le comunità indigene devono opporsi a grandi progetti infrastrutturali o di estrazione di combustibili fossili, o mega dighe che dovrebbero produrre energia pulita.
Lo scorso anno è stato l’anno più sanguinoso mai registrato in termini di omicidi di difensori della terra, con circa 200 persone uccise a seguito di conflitti sulla terra o l’ambiente principalmente in America Latina, ma anche in Africa, Asia.
Quasi la metà dei casi riguardava rappresentanti di comunità e popoli indigeni. Questa è solo la punta dell’iceberg di una guerra senza confine contro chi protegge la terra e l’ambiente per assicurare la sopravvivenza delle proprie comunità e popoli, proteggere i territori, e contribuire così agli sforzi globali contro cambiamenti climatici e per la protezione della biodiversità.
A migliaia infatti vengono minacciati o perseguitati. Una storia che si ripete da anni ormai, fin dall’omicidio nel 1988 di Chico Mendes e poi l’impiccagione, 22 anni fa, di Ken Saro Wiwa, leader del popolo Ogoni in Nigeria, e di altri sei attivisti rei di essersi opposti alle attività devastanti della Shell nel Niger Delta.
O più di recente Santiago Maldonado, accorso in sostegno alle legittime rivendicazioni territoriali del popolo Mapuche, scomparso e poi ritrovato morto annegato dopo un violento intervento della polizia argentina intervenuta per sloggiare un campo di protesta nel Lof Cushamen.
Un caso doppiamente tragico che rievoca spettri del passato e traccia con il sangue una storia di soprusi e violenza contro il popolo Mapuche accusati di essere fannulloni terroristi, o criminali.
Nei corridoi del Bonn Centre, l’enorme tendopoli costruita per dare alloggio agli stand delle delegazioni ufficiali e di quelle della società civile e per ospitare gli eventi paralleli della COP23, si incrociavano attivisti minacciati, persone in carne ed ossa, non numeri di una contabilità tragica, la cui incolumità una volta rientrati a casa sarebbe stata messa a rischio.
E’il caso del peruviano Robert Guimaraez Vazques, presidente di FECONAU da Ucayali sostenuto dall’ONG inglese Forest Peoples Programme. La sua comunità è stata attaccata nei mesi scorsi da pistoleros che hanno ucciso sei contadini, in una terra ambita da imprese che producono palma da olio. Le stesse imprese della palma da olio per biofuel che in Colombia si sono prese la terra di William Aljure, che lo scorso anno ha visitato anche l’Italia, mite contadino minacciato da squadracce paramilitari.
La Colombia, assieme a Brasile ed Honduras, è oggi il paese dove il conto degli omicidi e delle violenze contro i leader contadini, sociali ed indigeni è più alto. Basti pensare che da gennaio di quest’anno, quando è entrato in vigore l’accordo di pace tra governo e FARC, sono almeno sessanta i leader rurali, indigeni o sociali uccisi, per mano di nuove formazioni paramilitari al soldo di interessi privati interessati alle risorse naturali presenti nelle terre lasciate dalla guerriglia e abitate da comunità non intenzionate a cedere.
Ultimo il leader indigeno Mario Jacanamijoy trovato morto con segni di tortura nel Caquetà a fine novembre. Andando giù lungo le Ande, in Perù Máxima Acuña de Chaupe, (sono le donne ad essere maggiormente colpite in quanto donne, attiviste ed in molti casi indigene) resiste con le unghie per proteggere la sua comunità all’espansione della miniera d’oro di Yanacocha, la più grande dell’America Latina, un passato fatto di contaminazione tossica da cianuro usato per estrarre particelle di oro dalle enormi quantità di terreno rimosso nelle miniere a cielo aperto.
Nel 2016 è stata insignita del prestigioso premio Goldman per l’ambiente. Come nel caso dei Mapuche, Yanacocha incarna un ricorso storico che la dice tutta sulla persistenza della “colonia”. Yanacocha è infatti situata nella regione di Cajamarca dove si narra che Atahualpa avesse riempito una stanza d’oro fino all’orlo, come di riscatto per essere lasciato libero dal Conquistador Francisco Pizarro che poco prima aveva massacrato migliaia di soldati inca in una delle più sanguinose battaglie della “Conquista”.
Si narra anche il primo oro riportato dai Conquistadores dall’America Latina sia stato usato per laminare le decorazioni della Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma. L’oro degli Inca è oggi l’oro di cui è pieno il sottosuolo dell’Amazzonia.
Ad esempio nella Guyana Francese, dove un megaprogetto minerario minaccia l’esistenza delle popolazioni indigene, le prime ed uniche che vivono in un pezzo di Amazzonia che è a tutti gli effetti territorio “europeo”.
Ci tengono a dirlo i leader indigeni accorsi a Bonn dopo un tour dei “Guardiani della Foresta” in giro per l’Europa. Tra loro anche Sonia Bone Guajajara combattiva leader dei popoli indigeni dell’Amazzonia arrivata dal Brasile per denunciare il governo Temer di fronte alla giuria del Tribunale per i diritti della natura, presieduta da Tom Goldtooth – della nazione Diné e fondatore dell’Indigenous Environmental Network statunitense: “Siamo di fronte ad un etnocidio, un ecocidio ed un genocidio! Ed i responsabili sono nel governo Temer e nell’alleanza con i grandi interessi del latifondo e dell’agribusiness”.
Allargando lo sguardo ai paesi del cosiddetto Socialismo del XXI Secolo non è che la situazione sia migliore. Bastano le testimonianze dei rappresentanti della comunità di Sarayaku in Ecuador, la storia della loro lotta contro le imprese petrolifere per difendere il proprio diritti al Sumak Kawsay (il “buen vivir”) o quella di Marqueza Teco Moyoviri de Maleca indigena boliviana intervenuta anche lei al Tribunale per i Diritti della Natura e poi al Padiglione dei Popoli Indigeni al margine della COP23.
“Vedete? Qua sulla testa mi hanno bastonato i poliziotti di Evo Morales, perché voglio e vogliamo proteggere l’area protetta del Tipnis, dalla costruzione di un’autostrada. Evo parla tanto di madre terra ma non ha avuto alcun tipo di compassione per noi e per la Madre Terra”.
Oppure Francisca Ramirez, “Chica”, vicecoordinatrice del Consiglio Nazionale per la difesa del lago, della terra e della sovranità del Nicaragua che a Dublino, dove FrontLine Defenders aveva convocato qualche settimana prima della COP23 un incontro internazionale di difensori e difensore dei diritti umani, ha raccontato della resistenza al Canale transoceanico voluto dal presidente Ortega, con le sue storie di repressione e di un clima diffuso di minacce che però non ferma la mobilitazione.
Una curva che sale quella dei morti per attivismo: secondo Global Witness, che assieme al Guardian tiene un registro online dei casi di omicidi di difensori della terra e dell’ambiente, ad ottobre 2017 erano 157 i casi di omicidio di attivisti ed attiviste per l’ambiente – i cosiddetti Environmental Rights Defenders.
A loro lo scorso anno il Relatore Speciale ONU sui difensori dei diritti umani Michel Forst – che a maggio scorso è stato in Italia ospite della rete In Difesa Di e del Festival dei Diritti Umani di Milano – ha dedicato il suo rapporto annuale per poi riprendere la questione nel suo ultimo dossier su imprese e difensori dei diritti umani.
Nel primo rapporto Forst punta il dito sul modello di sviluppo estrattivista che rappresenta oggi la prima linea nella battaglia per i diritti umani.
“In molti paesi al mondo – si legge nel rapporto dedicato alla storia ed alla persona di Berta Caceres, leader indigena del popolo Lenca in Honduras barbaramente uccisa in un complotto ordito tra apparati di sicurezza dello stato ed impresa per il suo impegno contro la diga di Agua Zarca – attivisti e comunità stanno alzando la loro voce per proteggere l’ambiente e promuovere modelli alternativi di sviluppo che proteggano il pianeta. Per molti questi sono eroi che proteggono la Terra ed i nostri diritti. Non sono solo difensori della terra e dell’ambiente ma difensori dei diritti umani a tutti gli effetti. E chi li contrasta li demonizza, definendoli antipatriottici o accusandoli di essere contro lo sviluppo”.
Un modello di sviluppo che per essere alimentato ha bisogno di estrarre valore e risorse ovunque, fino ai lati più reconditi del pianeta, o in terre abitate da tempo immemorabile da popoli indigeni, o fragilissime dal punto di vista degli equilibri ecologici.
Si perfora, scava, costruisce, si tracciano gasdotti, innalzano dighe, piantano milioni di palme da olio per soddisfare la domanda energetica, in molti casi spacciando questi progetti come sostenibili o per la produzione di energia “pulita”.
Si investono fondi per proteggere le foreste senza permettere a chi le vive da millenni di continuare ad utilizzarne in maniera consapevole le risorse. Quegli ecosistemi dai quali dipende la loro vita vengono così trasformati in crediti di carbonio da immettere sui mercati globali e permettere a chi inquina, non di pagare, ma di comprarsi permessi di emissione sulle spalle di intere comunità, che verrebbero risarcite con denaro.
E’il capitalismo estrattivista, bellezza.
E ne stanno pagando il costo sociale ed ambientale comunità di mezzo mondo, da quelle mobilitate per difendere Standing Rock negli States, a chi vive appollaiato sugli alberi della foresta di Hambach per bloccare l’espansione di una megaminiera di carbone, a chi abbraccia ulivi nel Salento e viene messo a processo.
Il filosofo africano Achilles Mbembe lo avrebbe definito “necropolitica”, la politica che in sé ha i germi della morte. Crimini di sistema o crimini di pace, li avrebbe chiamati Franco Basaglia.
Al di là della definizione, esiste oggi un nesso indiscusso tra modello estrattivista, ingiustizia economica ed ecologica globale, espansione degli accordi di libero scambio e di promozione degli investimenti, appetiti sfrenati di imprese per risorse naturali scarse, la crescente “cooptazione” del settore pubblico e dello Stato da parte di interessi privati, e la curva ascendente degli attacchi ai difensori della terra.
Sempre secondo Global Witness dei 185 difensori della terra uccisi nel 2015 almeno 42 sono stati assassinati per essersi opposti ad attività minerarie o estrattive, 15 per la loro resistenza alle grandi dighe o per la protezione dell’acqua, 20 per opporsi all’agribusiness e 15 per le loro attività contro l’estrazione illegale di legname.
Sempre Forst nel suo rapporto di quest’anno sui difensori dei diritti umani e le imprese spiega: “Sui 450 casi documentati dal Business and Human Rights Resource Centre nel 2015 e 2016, la principale forma di attacco è la criminalizzazione, seguita dagli omicidi, intimidazioni e minacce.
Oltre il 52 percento degli attacchi registrati è avvenuto in America Latina: Guatemala (10 percento), Colombia (10 percento), Messico (9 percento), Brasile (9 percento), Peru (8 percento) ed Honduras (6 percento).
Le imprese operanti in settori che utilizzano o consumano risorse naturali o occupano territori quali le imprese minerarie, quelle dell’agribusiness, petrolio, gas e carbone, costruttori di dighe restano quelle più pericolose per i difensori e difensore”
Cosa fare? Per far fronte alla drammatica situazione registrata in America Latina, ONU e Commissione Interamericana per I diritti umani hanno di recente lanciato un piano comune per la tutela dei difensori dei diritti umani nelle Americhe, ma non può bastare.
C’è bisogno di un impegno forte e collettivo per aggredire le cause che sono alla base di questa guerra sotterranea, da come operano le imprese, all’impunità e l’inazione se non la connivenza degli apparati statali. Al nesso evidente con il modello dominante di sviluppo, ed al ruolo e corresponsabilità delle istituzioni finanziarie pubbliche o private. Da tempo movimenti sociali di ogni parte del mondo chiedono l’adozione di un Trattato vincolate sui diritti umani e le imprese, ora in fase di negoziato a Ginevra.
E poi per il 2018, anno che marcherà il 20esimo anniversario della Dichiarazione ONU sui Difensori dei Diritti Umani, sarà urgente alzare il livello di attenzione e denuncia, offrendo spazi di proposta che provengano direttamente dalle comunità minacciate, permettendo loro di scambiare esperienze ed informazioni e definire “dal basso” modalità di prevenzione degli attacchi e di protezione in sintonia con quanto fatto da organizzazioni quali Amnesty International e FrontLine Defenders.
Eppoi lavorare per allargare la rete di città rifugio per attivisti ed attiviste che decidano, come ultima istanza e per un periodo di tempo limitato, di lasciare il loro paese continuando però nel loro impegno accanto alle comunità.
Nelle parole accorate di Mina: “Abbiamo bisogno di protezione per tutte le nostre comunità, che si riconosca il nostro diritto alla terra, ed alle fonti di sopravvivenza”. Da qua si deve necessariamente ripartire.