IRAQ: MILIZIE SCIITE CONTRO IL CALIFFATO.LE ONG DENUNCIANO I CRIMINI

Da Reset-Dialogues on Civilizations
Sonia Greco

Il potere e l’impunità delle milizie in Iraq è emerso ancora una volta nelle ultime settimane, in seguito alla denuncia di Human Rights Watch (Hrw) che ha parlato di “possibili crimini di guerra” commessi a Muqdadiya, nella provincia orientale di Diyala, dai membri delle Brigate Badr e delle Lega dei Virtuosi (o dei Giusti), due milizie sciite appartenenti alle Forze di Mobilitazione Popolare (Hashd al-Shaab). Un’organizzazione nata sotto il governo dell’ex premier Nouri al Maliki per contrastare l’avanzata dell’Isis e integrata nelle truppe governative dall’attuale premier Haider al Abadi, che comprende decine di diverse sigle, quasi tutte sciite, alcune già presenti da tempo nel Paese, altre nate di recente.
Rappresaglie sciite, la denuncia delle ONG
L’11 gennaio due autobombe dell’Isis fatte esplodere all’esterno di un caffè della città, a quanto pare frequentato dai membri delle milizie, hanno provocato decine di morti e di feriti. Nei giorni seguenti gli uomini di Hashd al-Shaab hanno scatenato una rappresaglia contro i sunniti, ai loro occhi tutti sostenitori del Califfato: sono state uccise almeno 15 persone, sono stati bruciati 36 negozi e sette moschee sunnite. Diversi abitanti hanno lasciato la città nel timore di finire nelle mani dei miliziani, accusati già in passato di sequestri ed esecuzioni sommarie. Nel 2014 era stata Amnesty International a denunciare attacchi settari a danno dei sunniti a Baghdad, Samarra e Kirkuk, mentre un anno fa, sempre Human Rights Watch, aveva parlato di “saccheggi delle proprietà dei sunniti, di case bruciate” e della “distruzione di due villaggi” vicino ad Amerli, dopo la liberazione della città dai jihadisti.
Notizie che non fanno breccia nella stampa internazionale e ancor meno in Iraq, dove c’è una certa abitudine agli scontri settari e il governo dominato dagli sciiti e le milizie sciite non hanno interesse che se ne parli. Anche perché parlarne può essere molto, molto rischioso. Il 12 gennaio, ad esempio, il giornalista Saif Talal e il cameraman  Hasan al-Anbaki della Tv al-Sharqiya sono stati uccisi vicino a Ba’quba, capitale della provincia di Diyala, da un non meglio identificato gruppo armato, dopo essere stati a Muqdadiya.
I fatti di Muqdadiya – cittadina di una provincia mista (maggioranza sunnita, con una forte presenza sciita e una minoranza curda) al confine con l’Iran, sottratta all’Isis un anno fa – mostrano quanto le tensioni settarie, che hanno radici profonde nella storia del Paese e che sono l’humus in cui è nato ed è proliferato l’autoproclamato Stato islamico, e il radicalismo di alcune milizie impegnate in prima linea contro il Califfato alla lunga rischino di rendere vana una vittoria sugli jihadisti di Abu Bakr al-Baghdadi, che per essere effettiva e duratura, deve passare attraverso una riconciliazione tra sunniti e sciiti. Ma è un percorso lungo e tortuoso, e le ingerenze straniere – soprattutto dell’Iran nel caso delle milizie sciite – lo riempiono di ostacoli.
La caduta di Mosul e la nascita delle Forze di Mobilitazione Popolare
Le Forze di Mobilitazione Popolare (Hashd al-Shaab) sono state istituite dal governo a maggioranza sciita di Bagdad, allora guidato da Nouri al Maliki, in seguito alla conquista di Mosul, il 10 giugno 2014, da parte dell’Isis. L’importate città settentrionale a schiacciante maggioranza sunnita è caduta nelle mani degli jihadisti dopo quattro giorni di combattimenti. «Si è trattato di una vittoria sbalorditiva», ha scritto il giornalista Patrick Cockburn nel suo libro L’ascesa dello Stato islamico. «Ottenuta da una forza di circa 1.300 uomini ai danni di un contingente avversario che poteva contare, almeno sulla carta, su 60.000 effettivi». La corruzione dilagante nell’esercito iracheno, la sua conseguente inefficienza, la massiccia diserzione e la sottovalutazione della minaccia jihadista hanno contribuito a una disfatta che ha segnato la storia dell’Iraq.
Inoltre, Mosul è una città sunnita, dove Al Qaeda (l’organizzazione da cui è nata l’Isis) aveva mantenuto la sua presenza e dove era diffuso da tempo l’astio nei confronti del governo centrale, dominato dagli sciiti saliti al potere dopo l’invasione statunitense del 2003. Dal governo il settarismo è stato usato come arma di propaganda e di consenso, e le istanze della comunità sunnita irachena sono state effettivamente ignorate, e represse, dopo che è stata scacciata dalle stanze del potere che aveva occupato ai tempi di Saddam Hussein, il quale, a sua volta, aveva represso la maggioranza sciita. Una faida settaria, strumentalizzata dalle parti, che sta portando allo sfacelo l’Iraq, cancellando la sua ricca e variegata composizione etnico-religiosa.
A rimpinguare le file delle Forze di mobilitazione popolare, composte da 90.000-120.000 uomini, è stata una fatwa del Grande Ayatollah Ali al Sistani, emanata su esortazione di al Maliki pochi giorni dopo la caduta di Mosul. Migliaia di iracheni sciiti risposero alla chiamata alle armi di al Sistani in difesa del Paese e queste milizie si sono rivelate militarmente efficaci contro l’avanzata del Califfato. L’Iran ha fornito loro denaro, armi, addestramento e consulenze militari, e ne controlla direttamente alcune. Il leader politico delle Brigate Badr, Hadi al Ameri, è legato da un’amicizia personale al generale iraniano Qassim Suleiman, capo delle forze speciali delle Guardie rivoluzionarie (Quds), che dirige molte operazione belliche in territorio iracheno.
Sotto l’ombrello delle Forze di mobilitazione popolare operano una cinquantina di milizie, tra cui anche formazioni cristiane, yazide, gruppi tribali sunniti, il cui ingresso è stato favorito dal governo di al Abadi per stemperarne il carattere smaccatamene sciita, ma si tratta di poche migliaia di uomini. La parte da leoni, invece, la fanno le Brigate Badr, nate nel 1982 per opporsi al regime di Saddam durante la guerra tra Iraq e Iran (1980-1988), la Lega dei Virtuosi e i Battaglioni Hezbollah i cui capi si sono fatti un nome combattendo contro gli statunitensi. Tutte e tre queste forze sono foraggiate da Teheran e sono caratterizzate dalla militanza sciita.
La sempre più difficile riconciliazione tra sunniti e sciiti
La provincia di Diyala, ad esempio, dove sono avvenuti i “possibili crimini di guerra” denunciati da Human Rights Watch, è di fatto governata dalle Brigate Badr e dalla Lega dei Virtuosi, senza che ci sia un reale controllo del governo. Bagdad però è responsabile di quanto accaduto, si legge nella nota della Ong: «Includendo formalmente le Forze di mobilitazione popolare nelle forze di Stato, il 7 aprile 2015, il governo iracheno si è assunto la responsabilità delle loro azioni». Questa situazione, aggravata dalle violenze commesse dai miliziani nei confronti dei sunniti, considerati in toto sia collaborazionisti dell’Isis sia ex sostenitori di Saddam, diffonde un clima di paura nella comunità sunnita, che Bagdad dovrebbe tirare dalla sua parte per sottrarre un bacino di reclutamento e di consenso al “califfato”. E c’è molta apprensione anche nella comunità cristiana, che ha denunciato di subire la duplice pressione dell’Isis e delle milizie sciite.
La minaccia dello Stato islamico ha fornito il pretesto per coprire le rappresaglie dei miliziani nelle regioni sunnite riconquistate ai jihadisti, e i successi in battaglia, con la copertura dei raid Usa riavvicinatisi a Teheran con l’accordo sul programma nucleare iraniano, ne hanno consacrato il ruolo militare, ma anche politico.
Le milizie e la delegittimazione dello Stato iracheno
Le Brigate Badr e la Lega dei Virtuosi sono rappresentate in Parlamento in quanto esse operano da braccio armato di formazioni politiche e sempre più movimenti politici in Iraq ne seguono l’esempio formando una propria milizia. «Il problema di fondo è che queste milizie non solo operano fuori dal controllo dello Stato, ma ne erodono le fondamenta e lo delegittimano», sostiene su Ispionline Giovanni Parigi, docente di Cultura Araba all’Università degli Studi di Milano. Di certo delegittimano le Forze armate irachene. L’esercito di Bagdad si è rivelato inadeguato, non ha mai goduto della fiducia della popolazione (non certo di quella sunnita, contro cui ha spesso assunto il ruolo di aguzzino), è screditato dalle schiaccianti sconfitte subite contro lo Stato islamico e, oltre a problemi di fondi, ha seri problemi di reclutamento. Problemi che non hanno le milizie sciite legate all’Iran, che hanno centri di addestramento in diverse provincie. Pochi giorni fa, il sito di Asharq Al-Awsat dava notizia dell’inaugurazione del Centro culturale e sportivo Khomeini a Kirkuk, città petrolifera del Nord. Per molti si tratta di una base di reclutamento.
Questa situazione è anche il risultato della decisione di Washington di sciogliere l’esercito iracheno nel 2003. L’epurazione dei baatisti dall’amministrazione e l’allontanamento degli esperti generali sunniti dalle Forze armate, molti dei quali passati all’Isis, combinate con le politiche settarie di al Maliki hanno minato l’esistenza dello Stato iracheno che non riesce a riaffermare la propria sovranità territoriale, né ha il controllo sulle forze militari. Il rischio che l’Iraq imploda è reale.
Intanto, il Paese si prepara alla battaglia per Mosul. Sarà di sicuro lunga e cruenta. Sul terreno si dispiegano le truppe, tra cui le milizie tribali sunnite, che hanno l’appoggio aereo della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. I politici sunniti non vogliono che le milizie sciite prendano parte all’offensiva, ma secondo media locali, si stanno ammassando nella zona di Kirkuk, non lontano da Mosul. In città oggi abitano all’incirca un milione di persone ed è plausibile pensare che, dopo la “pulizia” fatta dallo Stato islamico, si tratti nella stragrande maggioranza di sunniti. Molti residenti della città nel 2014 videro nello Stato islamico un difensore contro il governo sciita sostenuto dall’Iran, tanto che la caduta di Mosul, secondo Cockburn, è stata il risultato di «un’azione militare ma anche di una sollevazione popolare» contro un esercito «detestato alla stregua di una forza di occupazione». Per quanto ancora più detestabile sia il dominio dei jihadisti per gli abitanti di Mosul, se i sunniti non si sentiranno parte di un progetto nazionale, se non si farà di tutto per evitare rappresaglie settarie, qualsiasi vittoria sarà minata dal risentimento. Il rischio è che si creino le basi per il prossimo conflitto.
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