Non solo #BlackLivesMatter, non solo gli Stati Uniti, non solo i neri. In Italia, in Europa si può morire per un accanimento violento delle forze di polizia. E se fosse anche solo un caso su un milione sarebbe troppo. Ma purtroppo non è così. Statistiche precise non ce ne sono, si conoscono casi isolati, a volte per sentenze scandalosamente miti nei confronti degli agenti, a volte perché i familiari delle vittime riescono a bucare il muro dell’indifferenza. Senza l’assassinio di George Floyd a Minneapolis, in Francia sarebbe calato il silenzio sull’uccisione analoga di Cédric Chouviat, un fattorino che implorava di lasciarlo respirare ai poliziotti che l’avevano immobilizzato a terra. L’Italia, purtroppo, ha un lungo elenco di casi simili: Riccardo Magherini, fermato dai carabinieri (poi assolti) a Firenze nel 2014; Federico Aldrovandi, il ragazzo ucciso durante un controllo per cui i vertici della Polizia alla fine hanno dovuto chiedere scusa ai familiari. E poi c’è Riccardo Rasman. E’ un caso altamente simbolico, perché riguarda una persona instabile dal punto di vista psicologico, che stava recuperando terreno, si era appena riconquistato l’indipendenza e un lavoro. Una persona fragile, che probabilmente non riusciva a comunicare i suoi stati d’animo e su cui i poliziotti di Trieste si sono accaniti con una violenza odiosa. Una vicenda che evidenzia forse il problema principale: le forze di polizia, titolari dell’uso legittimo della forza, sono preparate a gestire queste situazioni? O la militarizzazione – sia dal punto di vista culturale che di preparazione – ha snaturato la loro funzione?
Per capire cosa significa finire stritolati in questo meccanismo vi proponiamo come Johannes Bückler ha raccontato la vicenda di Riccardo Rasman nel suo libro “Non esistono piccole storie”. Ringraziamo l’editore People per averci permesso di usare questo capitolo.
Mi sono calmato
In precedenza vi ho raccontato le eroiche gesta di alcuni uomini
delle forze dell’ordine uccisi da terroristi o dalla criminalità organizzata.
Ma esiste anche chi ha abusato di quella divisa.
Tante, troppe storie. Anche queste, da non dimenticare.
27 ottobre 2006. Mi chiamo Riccardo Rasman, ho 34 anni
e una pensione da invalido. Sono schizofrenico, ma non da
sempre. Nel 1992 ho prestato servizio militare subendo episodi
tremendi di nonnismo. La Corte dei Conti mi ha riconosciuto
l’infermità dipendente da cause di servizio.
Sono le otto di sera, mi trovo nel mio appartamento. Domani
inizia il mio primo giorno di lavoro da netturbino, e mi sento
euforico. Ho messo la musica a palla e ho lanciato due petardi
nel cortile interno.
I vicini, pur conoscendo la mia situazione, chiamano la Polizia.
Ore 20.34. Una volante con due agenti è appena arrivata, e
ha chiamato rinforzi. Quindi una seconda volante con altri due
agenti interviene a supporto. Richiedono l’intervento dei Vigili
del fuoco per sfondare la porta del mio appartamento.
Perché io sono steso a letto con la luce spenta e mi rifiuto
di aprire. Quelli allora sfondano la porta ed entrano. Mi siedo
sul letto. Nasce una colluttazione con i quattro agenti. Vengo
immobilizzato, ammanettato dietro la schiena e i polsi legati alle
caviglie con un filo di ferro.
Nonostante abbia le manette, continuano a tenermi in posizione
prona per svariati minuti. Comincio a respirare affannosamente
e a rantolare, fino a divenire cianotico. Il mio cuore si ferma.
Chiamano l’ambulanza, ma per me non c’è più niente da fare.
Nonostante Riccardo fosse immobilizzato, gli agenti esercitarono
«sul tronco, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena,
sia premendo con le ginocchia, un’eccessiva pressione che ne riduceva
gravemente le capacità respiratorie», causandone la morte per asfissia.
La sua morte, però, non avvenne solo per quel motivo.
La scena presentava schizzi di sangue sui muri e segni di violenza
sul corpo dovuti all’uso di oggetti contundenti, come un manico
d’ascia trovato nell’appartamento e lo stesso piede di porco usato
dai Vigili del fuoco per forzare la porta d’ingresso.
«Era martoriato di botte sul viso, gli avevano rotto lo zigomo. Poi
il segno dell’imbavagliamento, sangue dalle orecchie, dal naso,
dalla bocca. Noi siamo entrati in quell’appartamento soltanto
in marzo, era un disastro: c’era sangue dappertutto e una chiazza
di sangue in cucina.»
«C’era una frattura, i capelli erano pieni di sangue, c’era una
frattura anche dietro il collo. C’era sangue sul tavolo, sui muri,
sulle lenzuola, dietro il letto per terra, c’erano chiazze di sangue
sul tappeto sotto il quale abbiamo trovato persino dei pezzi di carne
nascosti.»
Il 29 gennaio 2009, tre dei quattro agenti verranno condannati,
con rito abbreviato e pena sospesa, a sei mesi di carcere, con
l’accusa di omicidio colposo. Nel 2015 il tribunale di Trieste ha
condannato il ministero dell’Interno a risarcire un milione e
25mila euro alla famiglia.
Due mesi prima Riccardo aveva regalato una fisarmonica al papà:
«Così tu suoni e io canto» gli aveva detto.
«Mammina, vado via, torno tra tre ore. Mi faccio una pastasciutta
con un amico.»
In cucina fu trovato un biglietto, scritto prima dell’irruzione:
«Mi sono calmato, per favore non fatemi del male».