TUNISIA, CINQUE ANNI DOPO

Cinque anni fa, Mohammed Bouazizi si diede fuoco a Sidi Bouzid in segno di protesta contro il sequestro del suo carretto di verdura per un problema di licenza e per l’esasperazione di fronte all’indifferenza e agli sbeffeggi delle forze dell’ordine.

di Simone Rossi
Q Code Mag
Poco meno di un mese dopo, il 14 gennaio, la protesta esplosa in molte zone della Tunisia obbligava Ben Ali ad abbandonare il Paese, ponendo fine a un doloroso capitolo durato 23 anni e iniziando un complesso percorso di transizione politica.
Serve ripeterlo ancora che la vita di Bouazizi è paradigmatica di una generazione che in tutta la regione è stata asfissiata tra mille muri? Le barriere di una repressione di despoti autoritari, ma anche quelle di un sistema più vasto e tentacolare di cui questi ultimi sono o erano solo la testa Assha3b yurid isqat al-nizam, il popolo vuole la caduta del regime, questo si chiedeva. Basta con un sistema di clientelismo e corruzione che separa sommersi e salvati in base alla capacità di pagare o di compiacere il potente di turno, sia nel settore privato sia in quello pubblico. Un sistema opprimente e umiliante, fortemente iniquo, dal punto di vista sociale come da quello geografico: lauti profitti e rendite ma lavoro poco e malpagato, pochi centri dove si concentra la ricchezza mentre il resto del Paese stagna. Karama, dignità, si rivendicava in Tunisia.

Cinque anni dopo il quadro d’insieme è piuttosto sconfortante, in Tunisia come altrove nella regione – per non parlare dei sanguinosi conflitti in Libia, Siria e Yemen – il riscatto della dignità e della libertà continua a essere preso a bastonate, le condizioni di vita e le opportunità non sono certo migliorate, di giustizia sociale non se ne parla. Chi tra il 2010 e il 2011 aveva sognato è stato riportato alla realtà a suon di ceffoni; agli altri rimpiangono i tempi passati e quell’ordine che nascondeva violenze e ingiustizie sotto il tappeto.

Ora c’è l’ISIS, ora ci sono i terroristi. Meglio prima, quando si stava al sicuro. Meglio i deposti autocrati, che con i terroristi usavano il pugno di ferro. La repressione c’era, ma se ti comportavi bene non ti succedeva niente, alla peggio allungavi qualche soldo ai poliziotti. Quante energie sono state dedicate, su entrambe le sponde del Mediterraneo, a dibattere sullo spauracchio oscurantista dell’Islam? Grandi applausi per il popolo che insorge contro il dittatore, ma guai se parte di questo stesso popolo non vota per partiti laici. In questi anni i tunisini si sono trovati a essere strattonati tra gli interessi dei vecchi esponenti del sistema e le ambizioni delle forze politiche emerse sulla scena politica dopo la Rivoluzione, un braccio di ferro che ha lasciato pochissimo spazio a una discussione di ampio respiro sulle politiche sociali ed economiche che possano dare quella dignità che il Paese ha chiesto e ancora chiede.
Un anno fa, la Tunisia era l’alunna modello per Europa e Stati Uniti: approvata la Costituzione, le elezioni legislative e presidenziali avevano sancito la sconfitta di Ennahda, la formazione dell’Islam politico a vantaggio di Nidaa Tounes – partito che raccoglie al suo interno diversi esponenti politici sia dell’era di Bourguiba, sia di quella di Ben Ali – e dell’89enne Beji Caid Essebsi, figura storica della presidenza bourguibiana. Agli occhi di chi valutava i compiti a casa il pericolo islamista era scongiurato, benché Nidaa governi proprio in coalizione con Ennahda: “the rotten compromise”, il compromesso marcio, come l’ha definito la ricercatrice Nadia Marzouki, e che comunque non piace né a quella parte della popolazione ostile a Ennahda né all’ala più oltranzista di Nidaa.

Poi ci sono stati gli attentati: 18 marzo, Museo del Bardo; 26 giugno, Sousse; 24 novembre, Tunisi. E a ogni attacco terroristico la risposta è stata un giro di vite più stretto in nome della sicurezza. Non è più il tempo della dignità e della giustizia sociale, se mai ci sia stato.

Il lavoro, lo sviluppo sociale e regionale, le opportunità devono pazientare, farsi ancillari rispetto alla Stabilità del Paese. Lo stato di emergenza indetto due volte nel giro di neanche sei mesi, con relativa interdizione di manifestazioni e cortei: una legge anti-terrorismo che prevede la pena di morte e lascia ampi spazi di arbitrarietà, come denunciato da diverse organizzazioni; una politica economica sempre più orientata verso difesa e sicurezza anziché sulla correzione delle numerose criticità del sistema tunisino. E via elencando.
Quasi 3000 arresti da gennaio a novembre, 306 solo tra il 24 novembre e il 7 dicembre, queste sono le cifre rilasciate dal Ministero degli Interni, come riporta il magazine on line inkyfada , sollevando per altro sensati dubbi su come il sistema giudiziario possa fare fronte con efficacia a un tale impressionante sovraccarico di dossier. La cronaca giornaliera, tuttavia, mostra come dietro queste roboanti cifre si celino numerosi episodi di repressione e arbitrarietà, pratiche che risultano familiari a chi ha conosciuto la Tunisia prima della rivoluzione.
“La più grande prigione del mondo”, così recitava una vignetta a commento della recente condanna a 3 anni di carcere per sei studenti di Kairouan, città di grande importanza religiosa nell’interno del Paese, per sodomia. Articolo 230 del Codice Penale, la cui abolizione è una delle battaglie di Shams, associazione per i diritti degli omosessuali (a rischio di lista nera per le misure anti-terrorismo contro le organizzazioni “sospette”). Shams ha denunciato anche gli umilianti test anali cui i ragazzi sono stati sottoposti dopo l’arresto a seguito della denuncia dei vicini. “Il nostro ruolo è di fare sì che la gente rispetti la legge, che sia una questione di costumi o di terrorismo”, è stata la risposta del portavoce del Ministero degli Interni.
Il decoro, questione cruciale, benché a corrente alternata. Si trova infatti sul tavolo delle trattative da diversi mesi una controversa “legge di riconciliazione” che disciplinerebbe un certo numero di reati economico-finanziari commessi durante la presidenza Ben Ali in modo piuttosto vantaggioso per i responsabili. Altrettanto spinosa è la questione dei lavori dell’Istanza di Verità e Dignità (IVD), incaricata di investigare sui crimini commessi sotto Bourguiba e Ben Ali e, laddove possibile, risarcire le vittime. L’IVD non è vista di buon occhio da molti politici collusi col passato regime, né particolarmente amata è la sua presidente, Sihem Bensedrine, accusata di essere alleata di Ennahda e di avere adottato una linea troppo dura nel volere fare luce sui tanti episodi di repressione del passato, sia a danno di attivisti di sinistra sia di militanti islamisti.

Sempre nell’ultimo mese altri giovani tunisini sono finiti in carcere per discutibili motivi in nome del “rispetto per la legge”.

Il 28 novembre Adnen Meddeb e Amine Mabrouk vengono fermati dalle forze dell’ordine per mancata osservanza del coprifuoco. Membri del comitato organizzativo delle Journées Cinématographiques de Carthage (JCC), i due esibiscono il loro lasciapassare, ma vengono arrestati per “sospetto uso di cannabis”, poiché nella loro vettura vengono ritrovare delle cartine per sigarette. Neanche dieci giorni prima tre artisti piuttosto noti nel panorama tunisino, Fakhri El-Ghezal, Atef Maatallah e Alaeddine Slim, vengono arrestati per possesso di cannabis, zatla in arabo tunisino; sono stati condannati a un anno di carcere pochi giorni fa. È la legge 52 contro l’uso di droghe, uno dei principali strumenti di repressione politica degli anni passati e ancora adesso fra le più frequenti cause di detenzione fra i giovani tunisini. Per chi riesce, si paga e si evita la sentenza, magari accusando l’amico senza appoggi; gli altri rimangono a marcire nelle prigioni tunisine, per altro noti luoghi di radicalizzazione e reclutamento.

Ma mentre le forze dell’ordine rincorrono omosessuali e fumatori di canne – alcuni politicamente scomodi, altri solo sventurati trovatisi nel posto sbagliato al momento sbagliato – chi si occupa dei terroristi? Dov’è la politica, a tutti i livelli, che dovrebbe dare al Paese la tanto anelata dignità?

Quasi cinque anni dopo il disperato gesto di Mohammed Bouazizi, sempre nella stessa regione povera ed emarginata, un pastore di sedici anni, Mabrouk Soltani, veniva decapitato da un gruppo di terroristi che in quella zona hanno una base, forse per essersi opposto al furto delle sue pecore, forse per il sospetto di essere un informatore della polizia, comprato per pochi spiccioli. La storia di Mabrouk ha ricordato alla Tunisia che fuori dai quartieri residenziali di Tunisi e dai resort per il turismo di massa di Sousse, gran parte del Paese continua a vivere tra povertà, emarginazione e profonda frustrazione.
Nel frattempo, il nuovo progetto di legge finanziaria per il 2016 va nella stessa direzione della finanziaria integrativa promulgata nell’estate del 2015, industriandosi per teneri i conti in ordine e assegnando un ruolo chiave alla spesa per la sicurezza. I programmi di aiuto internazionale insistono invece sulle misure per incoraggiare l’investimento privato, la creazione di lavoro seguirà, inchallah. La qualità di questi impieghi e la loro distribuzione sul territorio è una questione che, forse, si porrà nel lungo periodo.
La Tunisia si trova ora con un Premio Nobel per la Pace e ancora tanta strada da percorrere in questa transizione. In questa terra di sommersi e salvati, la Rivoluzione è partita da un sommerso e dalla sorte dei sommersi dipende il suo successo. Ai salvati spetta il compito e la responsabilità di onorare i sogni di dignità che cinque anni fa risvegliarono un Paese e una regione.
Inchallah lebe’s ya Tunes, il tuo lavoro continua.