Di Ilaria Romano,
17 febbraio 2016
Da Reset-Dialogues on Civilizations
Sono passati dodici anni dallo scandalo di Abu Ghraib, eppure molte immagini di abusi e torture compiute da soldati americani sui detenuti in Iraq e Afghanistan nell’era Bush restano secretate. Ufficialmente per questioni di sicurezza nazionale, questa la motivazione della Difesa Usa: non mettere a rischio i connazionali, in divisa e civili, che si trovano all’estero.
Un piccolo passo avanti in questa lunga battaglia per la trasparenza e la giustizia però si è compiuto il 5 febbraio scorso, quando il Pentagono ha reso pubbliche 198 immagini di parti del corpo di prigionieri sotto custodia americana che presentano ecchimosi e ferite, e che sarebbero state scattate fra il 2004 e il 2006.
Le foto provengono dall’archivio della sezione investigativa Army and Criminal che ha indagato sulla cattiva condotta del personale Usa a seguito di numerose accuse di tortura: 14 di queste sono state confermate, altre 42, secondo quanto dichiarato dalla Difesa, sarebbero invece decadute. In totale 65 persone sarebbero state sottoposte a provvedimenti disciplinari di diversa entità, dall’ammonizione al carcere a vita, e 26 fra loro sarebbero stati giudicati dalla corte marziale. La pubblicazione di queste immagini è il risultato di una causa portata avanti per un decennio dall’American Civil Liberties Union, in base al Freedom of Information Act, contro il Dipartimento di Difesa. Una vittoria parziale, però, perché secondo l’Aclu il Pentagono sarebbe in possesso di 2 mila foto che ritraggono abusi, e avrebbe selezionato le meno cruente da divulgare, quelle dove non compaiono atti di abusi sessuali né personale americano. «Stiamo andando avanti – ha fatto sapere il direttore legale dell’organizzazione Jameel Jaffer – perché le immagini rimaste ancora segrete sono un’ulteriore prova di quanto avvenuto nei centri di detenzione militare; e la diffusione selettiva da parte del Governo rischia di ingannare il pubblico circa la reale portata di quanto avvenuto».
L’Aclu lavora dal 2003 sui casi di abusi nei centri di detenzione in Iraq, Afghanistan e Guantanamo Bay gestiti dagli Usa. La prima richiesta dell’associazione, in base al Freedom of Information Act, fu quella di ottenere i documenti relativi al trattamento e al decesso di alcuni prigionieri sotto custodia americana all’estero. La prima sentenza in merito è stata emessa dal giudice distrettuale Hellerstein un anno dopo. Da allora, un pronunciamento dopo l’altro, il Governo americano ha rilasciato oltre 100 mila pagine di documentazione relativa al trattamento dei prigionieri dopo l’11 settembre. Queste prove sono stati raccolte in un unico database, e comprendono non solo immagini ma anche note legali, emesse dal Dipartimento di Giustizia, che autorizzavano la Cia a metodi di interrogatorio particolarmente duri e violenti; come pure rapporti su quanti si siano rifiutati di eseguire gli ordini e torturare i prigionieri per avere informazioni. In totale si tratta di circa 5 mila documenti.
L’organizzazione ha ricordato che, se è vero che ci sono state persone giudicate e punite per i crimini contro i detenuti, nessuno ha approfondito le eventuali responsabilità fra i più alti in grado. Già nel luglio del 2011 il giudice aveva bloccato il rilascio delle foto sotto la spinta del Segretario della Difesa, perché le truppe americane si trovavano ancora in Iraq. La sentenza che ha stabilito di desecretare le immagini è poi arrivata nel 2014, ma l’amministrazione Obama si è opposta facendo ancora appello alla tutela dei connazionali e della sicurezza nazionale, ed è stata avanzata l’ipotesi che anche lo Stato Islamico potesse fare leva su quelle immagini di violenza per il reclutamento.
Le 198 foto in questione sono ben diverse da quelle che nel 2004 sconvolsero il mondo documentando le umiliazioni e le torture di Abu Ghraib, ma non per questo meno importanti. Spesso scure, sgranate, e fuori fuoco, immortalano soprattutto dettagli molto ravvicinati di braccia, gambe, piedi, di detenuti che quasi mai compaiono in volto, o a figura intera. Soprattutto non forniscono elementi certi per ricavare in quale contesto si siano verificati i fatti che hanno portato a quei segni, registrati dagli inquirenti che diedero seguito alle accuse di abusi. Sapendo che le immagini raccolte sono circa 2 mila, le organizzazioni internazionali per i diritti umani affermano che la selezione non è stata casuale, fra quelle da rendere pubbliche e quelle da tenere ancora segrete. Per questo il Segretario della Difesa Ash Carter, appena tre mesi fa, aveva firmato il via libera alle 198 fotografie solo a seguito di un’ulteriore revisione fatta da funzionari militari, certificando che non avrebbero rappresentato una minaccia per la sicurezza nazionale.
«È probabile che siano le più innocue – ha detto Alex Abdo, avvocato dell’Aclu che lavora al caso dal 2005 – e se così fosse questo getta un’ombra sulla trasparenza dello stato. Le foto che vediamo sono decontestualizzate, senza indicazioni specifiche di abusi sistematici, di luoghi e circostanze».
È dal 2009 che l’American Civil Liberties Union tenta di divulgare tutte le immagini, e che si batte contro l’omertà su fatti gravissimi che avvennero negli otto anni precedenti. Di quello stesso anno, non a caso, è il Protected National Securuty Documents Act, che permetteva al Segretario della Difesa di impedire la divulgazione di immagini relative a detenuti e prigionieri di guerra, a meno che non ci fosse la certezza che la pubblicazione non mettesse in pericolo soldati o civili all’estero. Di durata triennale, il documento venne rinnovato nel 2012 e di nuovo l’anno scorso, dallo stesso Ashton Carter che ha firmato per la divulgazione delle immagini in questione.
Come già aveva riportato Vice News in un’inchiesta del 2014, la parte del dossier pubblicato ora fa parte di un’ampia indagine sugli abusi commessi dai soldati americani in Iraq e Afghanistan, nella quale le fotografie esaminate erano state suddivise in tre categorie: A, ossia che richiedono una spiegazione perché iconiche e drammatiche, B che probabilmente richiedono una spiegazione perché riportano ferite o umiliazioni, C che potrebbero richiedere una spiegazione perché mostrano ferite senza un contesto.
Fra quelle ancora occultate l’Aclu ritiene che ce ne siano alcune che ritraggono nella “scena” anche soldati americani, nell’atto di percuotere i detenuti, o umiliarli sessualmente.
«Queste foto non sono solo ricordi di torture commesse da parte di personale degli Stati Uniti – ha dichiarato anche Naureen Shah, direttore di Human Rights Program di Amnesty International Usa – perché la tortura non è stata solo il lavoro di poche mele marce, ma era sistematica e ordinata dall’alto. Chi ha autorizzato pratiche abusive e illegali deve essere ritenuto responsabile, e finché il paese chiuderà un occhio sui propri abusi non potrà mai essere visto come leader in materia di diritti umani».
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