#25Aprile. La vita di banda

di Chiara Lusuardi
tratto dal Dossier didattico di www.stampaclandestina.it

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“La vita partigiana si presta alle idealizzazioni romantiche, perché ha i misteri del carbonaro del nostro Risorgimento, l’avventura del fuori legge, la passione del rivoluzionario. Tra cinquant’anni il partigiano, mentre noi ci avvieremo al declino
della vita, sarà trasformato dalla leggenda in un mitico eroe della montagna, cui fu cibo la fede e
compagno il moschetto.”1
Queste poche righe stampate su «Il Cacasenno» – il quindicinale
polemico della 2^ divisione Giustizia e libertà – condensano molti degli approcci che le testimonianze e
la storiografia della Resistenza hanno maturato nel corso del dopoguerra riguardo alla vita di banda. In realtà, oltre a queste visioni più retoriche, nella stampa delle formazioni
combattenti si possono rintracciare molte delle caratteristiche
(e dei luoghi comuni, appunto) della guerra partigiana e
degli elementi tipici della formazione delle bande. La banda è un raggruppamento di volontari – prevalentemente maschi – operanti alla macchia in zone di montagna
contro forze nemiche che occupano il Paese. In genere comprende qualche decina di uomini, ma alcune raggiungono il centinaio e oltre.
La prima massiccia formazione delle bande si ha nell’autunno- inverno del 1943, soprattutto dopo la pubblicazione dei primi bandi di leva della Rsi, poiché molti militari renitenti e sbandati, spesso compaesani, rifiutano la chiamata e si rifugiano in modo spontaneo nelle montagne dell’Appennino e delle Alpi, lontani da strade e luoghi popolati, per compensare la loro carenza di armi e risorse e per avere possibilità di ripiegamento dopo gli attacchi.

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