di Lorenzo Bagnoli
da Q Code Mag
Dopo la strage di migranti del 2013, l’Italia commemora la prima giornata della memoria, mentre l’Europa rinuncia a qualsiasi politica condivisa.
Prima e dopo Lampedusa. L’isola commemora la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione, istituita nel giorno in cui 368 persone sono morte annegate di fronte alle coste italiane. Quella data è stata uno spartiacque. La strage di Lampedusa ha innescato la creazione di Mare Nostrum, la missione umanitaria italiana che ha salvato oltre 120 mila persone in poco meno di un anno. La prima e unica missione umanitaria promossa da un governo nel Mediterraneo. Ha costretto, almeno per un istante, ad umanizzare una tragedia annacquata nei numeri dei “flussi”. Il dramma è emerso dagli abissi insieme alla carcassa della nave che s’era inghiottita le vittime. Un anno dopo la tragedia il Commissario straordinario per le persone scomparse Vittorio Piscitelli, insieme a Cristina Cattaneo, responsabile del laboratorio di medicina legale Labanof dell’Università Statale di Milano, ha cominciato a lavorare per dare un nome a quelle vittime (bambini in quattro casi su dieci) e alle altre morte una settimana dopo. A queste se ne aggiungeranno altre 180 circa, annegate nell’ultimo mega naufragio nelle acque siciliane, il 18 aprile 2015.
Piscitelli definisce l’operazione di recupero delle identità una “missione umanitaria”. E lo è, al pari di quella di salvataggio de i migranti in mare: senza nomi non ci sono storie e senza storie non c’è memoria. Ci sono solo eventi e numeri.
L’operazione è lunga e complessa: non ci sono soldi da spendere per identificare un morto. La prova del dna è molto difficile da applicare in casi in cui i parenti in linea diretta sono imprigionati in Eritrea, il Paese di provenienza della maggior parte dei naufraghi del 3 ottobre. L’indagine così passa dai segni sul corpo dei cadaveri, dalle tracce lasciate dai vestiti, dalle foto sui social network. Si cerca un difficile match a partire da arcate dentali e padiglioni auricolari, due parti del corpo che non esistono mai identiche. “Si potrebbe fare un museo con ciò che è stato trovato”, racconta Piscitelli. Come se Lampedusa fosse la Ellis Island d’Europa. Nessun uomo delle istituzioni, in Europa, è mai arrivato anche solo a pensarlo. Il prefetto Piscitelli e il team di Cristina Cattaneo sono la dimostrazione che forse l’Italia non è solo un avamposto della Fortezza Europa, non è solo il braccio armato delle politiche contro i migranti. Esiste anche altro.
Questo “altro” non lo troverete a Palazzo Chigi. E non lo troverete nemmeno nei corridoi dell’Unione europea a bisbigliare all’orecchio dei commissari la proposta del Migration Compact, la versione italiana dell’esternalizzazione delle frontiere, ossia il subappalto della gestione dei migranti. L’ennesimo tentativo – e nemmeno il più goffo – di rendere la gestione dei migranti un “problema” da scaricare su qualcun altro in cambio di soldi. Il Migration Compact è la fase finale del Processo di Khartoum, un’agenda politica costruita in primis dall’Italia che ha cercato di coinvolgere i Paesi del Maghreb, del Corno d’Africa e del Sahel in un percorso di “responsabilizzazione” nella gestione dei migranti. La fase di maggiore successo di questa strategia è stata a novembre 2015, quando a Malta è andato in scena il Summit Europa-Paesi Africani, chiusosi con l’apertura di un Trust Fund del valore di 1,8 miliardi di euro.
Quest’Europa non ha mai dimostrato di essere in grado di gestire i migranti. Non in questi ultimi cinque anni, da quando la cosiddetta “emergenza” è esplosa. Ma questa Europa, seppur sotto cumuli di carte stracce inapplicabili e ipocrite, manteneva ancora un barlume di ragione, qualche traccia delle ragioni per cui l’Europa è nata. O almeno era in grado di dirsi di non essere all’altezza delle sue aspettative. Poi c’è stato uno spartiacque, un avvenimento che, come la strage di Lampedusa, ha segnato un prima e un dopo, un evento che ha portato ulteriormente indietro le lancette del dibattito europeo, che già era fermo al giurassico.
Questo momento è stato il vertice informale dei capi di Stato dell’Ue a Bratislava, in settembre, a cui si lega il precedente inizio del semestre europeo della Slovacchia. Roba da rimpiangere l’Europa incompiuta di Merkel, Hollande, Renzi, Juncker e Tusk. Dopo Bratislava qualunque idea di politica migratoria condivisa è stata cestinata.
Non si può nemmeno discutere se sia giusta, applicabile o superflua. Ora l’asse s’è spostato sui Paesi del Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e, appunto, Slovacchia), che non credono nella politica delle quote, non credono nemmeno nell’esternalizzazione e in fondo non credono ad un’Europa diversa da quella economica. Credono solo nei muri e nella chiusura delle frontiere. E Bruxelles, ormai, non ha più la forza per contrastarli.
Mentre in Italia qualcuno cercava di ridare un nome agli annegati del Mediterraneo, l’Europa cominciava una corsa alla sicurezza che sembra destinata ad essere un’estenuante maratona. Dal 2014 al 2016 (dati Overseas Development Institute, importante ong britannica) sono stati spesi per questa voce 17 miliardi di euro. Di questi 1,7 in frontiere interne all’Ue (muri, apparecchi tecnologici, armamenti), i restanti 15,3 sono stati utilizzati per coinvolgere Paesi terzi nel progetto securitario (tra le voci più importanti, l’accordo con la Turchia e il Trust Fund con l’Africa).
L’augurio per questo 3 ottobre, allora, è di riscoprire il sapore delle storie. Di imparare a leggere le migrazioni dall’Africa all’Italia o dalla Turchia alla Grecia con le stesse lenti che usiamo per descrivere chi dal Portogallo si sposta in Inghilterra o dall’Italia va in Germania. Perché l’immigrazione non si ferma alzando dei muri, né si cancella abbattendo le frontiere. La si può solo governare. E, quando si conoscono le storie, la si governa meglio.
L’immagine in apertura è una foto di International Federation of Red Cross and Red Crescent Societies tratta da Flickr in CC.