di Anna Bredice
tratto da Radiopopolare.it
Roma – “Le parole fanno più male delle botte, cavolo se fanno male”. Un male talmente crudele che spinsero la quattordicenne Carolina Picchio a buttarsi dalla finestra in un freddo gennaio del 2013 a Novara. Qualche minuto prima aveva lasciato quelle poche parole per spiegare il motivo per cui preferiva andarsene, piuttosto che patire ancora le volgarità, gli insulti, le derisioni che si diffondevano come una macchia d’olio sui social insieme a un video e alle fotografie scattate da alcuni ragazzi poco più grandi di lei, tutti minorenni.
Nel nome suo è stata approvata la legge contro il cyberbullismo, un fenomeno purtroppo in crescita, a cui ha creduto e per il quale si è impegnato fin dal primo istante il padre di Carolina, Paolo Picchio, come suo unico scopo e ragione di vita, per trovare, spiega, “un motivo per alzarmi ogni mattina”, dopo tre mesi in cui è rimasto con gli occhi chiusi nel dolore.
E lui, nel giorno dell’approvazione definitiva della legge, dopo lunghi passaggi tra Camera e Senato, era seduto tra gli ospiti nell’aula di Montecitorio e ha ricevuto pochi istanti prima del voto la riconoscenza di Laura Boldrini e l’applauso di tutti i parlamentari. Una delle poche leggi approvata all’unanimità.“Le parole lasciate da mia figlia non potevano cadere nel vuoto”, dice Paolo Picchio evidentemente commosso dopo il via libera della legge.
La legge combatte il cyberbullismo, che viene definito come ogni forma di pressione, aggressione, molestia e ricatto per via telematica in danno dei minori.
Il provvedimento circoscrive gli effetti solo ai minorenni, con una punizione che prevede l’ammonizione da parte del questore, estenderlo anche ai maggiorenni avrebbe aumentato le difficoltà di approvazione, perché si sarebbe dovuto intervenire anche sul codice penale.
Ammonimenti, formazione dei genitori e degli educatori, con l’obbligo di avere in ogni scuola un referente contro il cyberbullismo, e poi la possibilità per il minore sopra i 14 anni vittima di bullismo online di chiedere, anche senza la presenza del genitore, l’oscuramento, la rimozione e il blocco dei contenuti diffusi in rete.
Una serie di interventi che vanno dalla sanzione alla prevenzione, che chiaramente non si concludono con la legge.
“Dopo la legge, ci vuole la cura”, dice ancora Paolo Picchio, il papà di Carolina che lavora attivamente con associazioni e enti che si occupano di cyberbullismo
I numeri sono preoccupanti. Da una ricerca di Skuola.net su ottomila adolescenti nella fascia 14-18 anni, risulta che in un anno le vittime di bullismo sono salite dal 20 al 28%, mentre l’8,5% è preso di mira sul web, l’anno passato erano il 6,5%.
Per chi si occupa di questo fenomeno nelle scuole è molto difficile trovare punti di contatto, fiducia e dialogo con i ragazzi vittime di bullismo, si vergognano di raccontare ciò che subiscono, c’è omertà oppure, ancora più grave, raccontano di non aver nessun adulto a cui fare riferimento.
Gli educatori che lavorano nelle scuole riescono difficilmente a trovare un contatto con i genitori, i quali a volte non hanno nessun idea della quantità di social che maneggiano i loro figli. “Dei 40 mila ragazzi che incontro, dovrei incontrare 40 mila genitori, eppure riesco a parlare solo con il 10% di loro”, spiega Ivano Zoppi, presidente di Pepita Onlus, un’associazione che lavora alla prevenzione del cyberbullismo
Se la scuola, fin dalla quarta o quinta elementare in avanti, con un picco nelle scuole medie, è il contesto dove maggiore è diffuso il bullismo, il fenomeno è presente anche nello sport. Non a caso una delle testimonial contro il cyberbullismo di cui è stata vittima, è la campionessa paraolimpica Bebe Vio. Nelle società sportive le molestie e le aggressioni a danno dei ragazzi esistono ma c’è una scarsa capacità di denuncia, si preferisce mantenere tutto all’oscuro per timore delle conseguenze all’esterno e la pubblicità negativa che ne deriverebbe. Lo racconta il deputato Bruno Molea, presidente dell’Aics, Associazione cultura e sport
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