Il 24 dicembre 2013 è stata adottata in Tunisia la legge regolante la giustizia di transizione, che ha dato il via alla creazione di una serie di strumenti giudiziari per investigare le gravi violazioni dei diritti umani commesse dal 1° luglio 1955 alla data della legge stessa. L’elemento innovativo di questo impianto normativo è l’istituzione di una Commissione per la Verità e la Dignità, sul modello di quella creata in Sudafrica nel 1995, per affrontare pubblicamente il passato, documentare la memoria collettiva e realizzare la riconciliazione nazionale.
La Commissione
La cerimonia di apertura dei lavori Commissione si è svolta il 10 dicembre 2014. Le audizioni, che si svolgeranno a porte chiuse, sono iniziate il 28 maggio scorso. Nel Paese si è anche aperto un dibattito sulla proposta di trasmettere in televisione le udienze, per favorire la conoscenza dei crimini del passato.
La Commissione è un organo indipendente composto da 15 membri scelti dal legislativo per la loro neutralità e integrità. È presieduta da Sihem Bensedrine, giornalista e attivista, e comprende due rappresentanti delle vittime e due delle organizzazioni per i diritti umani. Gli altri commissari sono stati scelti tra esperti di diritto, scienze sociali, studi umanistici, medicina, comunicazione e archivistica; tra loro anche un giudice civile e uno amministrativo. I membri hanno l’accesso agli Archivi di Stato, possono chiamare le persone a testimoniare e adottare le misure necessarie per proteggere le vittime e i testimoni.
La Commissione non ha competenza giurisdizionale, ma può decidere di deferire i casi di violazioni dei diritti umani alla magistratura per un eventuale procedimento penale. I crimini più gravi saranno giudicati da alcune camere speciali all’interno dei tribunali nazionali, la cui creazione è decisa dalla stessa legge del 2013.
A pochi mesi dall’apertura, la Commissione ha già dovuto scontrarsi con i primi ostacoli, come la burocrazia per il sostegno finanziario e la polizia per l’accesso agli archivi.
Ci sono tuttavia altri elementi che hanno suscitato diverse preoccupazioni, espresse anche da Human Rights Watch. Innanzitutto il tempo limitato, in quanto la Commissione ha a disposizione 4 anni – prorogabili di uno – per esaminare tutte le 12700 richieste ricevute. In secondo luogo, preoccupa anche la posizione del nuovo presidente tunisino Beji Caid Essebsi, legato al vecchio regime politico, che ha dichiarato di voler introdurre emendamenti alla legge che istituisce la commissione.
I crimini
Prima della rivoluzione che ha sconvolto il Paese nel 2011, la tortura era una pratica piuttosto comune, utilizzata per mettere a tacere le opposizioni da entrambi i regimi tunisini di Habib Bourguiba e di Zine el-Abidine Ben Ali.
Ecco perché la Commissione ha una giurisdizione temporale che parte dal 1955, anno di indipendenza della Tunisia dalla Francia, e termina nel 2013. Di sua competenza saranno quindi le uccisioni di massa durante il movimento di indipendenza, la tortura e l’arresto di circa 30mila sindacalisti, studenti e oppositori e le violenze che causarono la Rivoluzione dei Gelsomini del 2011.
“Non è qualcosa che riguarda un regime piuttosto che un altro – ha dichiarato Emtyez Bellali, dell’Organizzazione Mondiale contro la Tortura di Tunisi – La tortura è stato uno strumento di governo in questo Paese. Dobbiamo combatterla perché è nella mentalità di tutti.” Il centro più famoso in cui venivano torturati gli oppositori si trovava all’interno del Ministero degli Interni; chi viveva nelle vicinanza sentiva le urla dei prigionieri alle 3 del mattino, come ha ricordato Mounira Ben Kaddour, dell’Associazione delle Donne Tunisine.
Le donne
Proprio le donne sono le protagoniste delle udienze della Commissione. Sono state torturate tanto brutalmente quanto gli uomini, e inoltre sono state vittime di violenze sessuali. Lo stupro era una forma di tortura istituzionalizzata, di cui le donne erano oggetto anche solo in quanto mogli o parenti di un membro dell’opposizione.
Paradossalmente, queste pratiche venivano commesse proprio da regimi portatori di forti istanze per l’avanzamento dei diritti delle donne. Basti pensare che con il Codice che tutela la persona dal 1956, la Tunisia è stata il primo Paese arabo a garantire alcuni diritti alla donna, proibendo la poligamia e riconoscendo la possibilità di divorziare.
Altrettanto paradossalmente, le violenze contro le donne non sono mai state indagate da alcuna istituzione, e le vittime sono state spesso costrette a tornare ad abitare a pochi passi dai loro aguzzini. Per tutelarle è nata l’Associazione delle Donne Tunisine, guidata da Ibtihel Abdellatif.
Le prove dei crimini perpetrati sono poche, e molte donne sono state terrorizzate dalla polizia affinché non denunciassero l’accaduto ai media o alle associazioni umanitarie. A ostacolare la giustizia vi è anche la censura interna alla comunità. “Quando una donna è imprigionata nel mondo arabo – ha spiegato Ibtihel Abdellatif – questo distrugge la sua vita perché quando è rilasciata entra in una prigione più grande, rifiutata dalla società”.
Il Paese
La Tunisia è spesso indicata come il Paese in cui la primavera araba ha avuto più successo. Se da un lato questo è vero, come dimostra una certa stabilità governativa – va ricordato che la disoccupazione, in particolar modo quella giovanile, è ancora altissima.
Nelle aree urbane e costiere il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 29 anni è del 23,6% – secondo cifre della Banca Mondiale -, nelle zone rurali arriva al 47,9%. Particolarmente alta la mancanza di lavoro tra i diplomati, che hanno anche fondato l’Associazione dei diplomati disoccupati di Medenine.
L’assenza di prospettive peri l futuro, che era stata alla base della rivoluzione del 2011, rischia oggi di spingere i giovani tunisini ad unirsi all’Isis, che promette loro denaro e una “giusta causa” per cui lottare.
Martina Landi, Redazione Gariwo
articolo tratto da it.gariwo.net