Gaetano Pentassuglia, professore di diritto internazionale e diritti umani, University of Liverpool, Regno Unito
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L’ultima di una serie di misure adottate dal Presidente Donald Trump a solo pochi giorni dal suo insediamento alla Casa Bianca, in particolare il decreto (executive order) di restrizione all’immigrazione ha suscitato forti polemiche nel paese e nel mondo.
Il provvedimento, tra le altre cose, si propone di sospendere sia il programma nazionale di ammissione dei rifugiati (in via provvisoria), che quello relativo ai rifugiati siriani (a tempo indeterminato), e nega l’accesso al paese a coloro che provengono da specifici paesi a maggioranza musulmana – Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen.
La misura ha generato notevoli incertezze per via delle ambiguità che circondano la sua applicazione, e soprattutto i dubbi circa la sua stessa legalità. Alcuni giudici federali hanno accolto richieste di ingiunzione volte a impedire il respingimento di persone in stato di fermo presso vari aeroporti americani, per lo meno i detentori di un regolare visto di ingresso e le persone che risiedono legalmente negli Stati Uniti. Una importante svolta è stata impressa dalla decisione di un magistrato federale di Seattle di sospendere a livello nazionale il decreto di Trump in attesa che la fase di merito dell’azione intentata dagli stati di Washington e Minnesota faccia il suo corso. E tuttavia resta poco chiara la posizione di coloro che siano provvisti di doppio passaporto e che siano cittadini di uno dei paesi destinatari del provvedimento restrittivo, o che siano nati in uno di questi paesi o abbiano mantenuto legami familiari in uno di essi. Per costoro si tratterà di capire, caso per caso, in che misura potranno essere ammessi nonostante le restrizioni (ove fossero reintrodotte), sulla base di valutazioni attinenti alla sicurezza nazionale e le alleanze politiche con altri stati.
Ad di là degli aspetti pratici di applicazione, profondi dubbi sono stati espressi in merito alla compatibilità del decreto con la legislazione americana sull’immigrazione, i diritti costituzionali fondamentali e gli obblighi internazionali a carico degli Stati Uniti. Spetta ai tribunali interni pronunciarsi sul decreto, e non è esclusa la possibilità che la Corte Suprema sia chiamata a intervenire nelle prossime settimane o mesi. Al momento tutto sembra far pensare a una progressiva intensificazione del controllo giudiziario e a una prevedibile riluttanza a confermare i termini del decreto in tutto o in parte.
Dal punto di vista dei diritti umani, ci sono almeno due questioni che emergono con una certa chiarezza. L’una riguarda la Convenzione ONU sui rifugiati del 1951 e il suo Protocollo del 1967. L’altra attiene alla discriminazione in ragione della nazionalità e religione.
Pur essendo abbastanza chiaro che cosa si intenda per rifugiato secondo la Convenzione del 1951, gli stati firmatari sono tenuti a garantire una procedura interna per confermare che il richiedente asilo risponda ai requisiti del trattato. Un aspetto centrale del sistema è il principio per cui nessuno stato può respingere un asylum-seeker ‘verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche’. Il divieto di rimpatrio forzato (non-refoulement) è inoltre previsto dal diritto internazionale in altre aree di tutela dei diritti umani, a prescendire da una richiesta di asilo, ove sussista un rischio di tortura o di simili abusi.
Nella misura in cui il decreto è applicabile a un richiedente asilo, esso non sembra assicurare una procedura per la valutazione dei singoli casi secondo il principio di due process, nè adempie all’obbligo di non-respingimento di individui provenienti da zone di conflitto. Inoltre, la natura ampia delle restrizioni è tale da mettere in dubbio che esse possano giustificarsi in nome della sicurezza nazionale. Per esempio, si possono nutrire forti dubbi sulla presenza di prove inconfutabili di una imminente minaccia terroristica contro la sicurezza degli Stati Uniti proveniente dai sette paesi interessati dal decreto.
E’ molto significativo che il provvedimento di Trump includa una esenzione discrezionale dalle restrizioni per membri di minoranze religiose che siano perseguitati in ragione del loro credo nel paese di origine (una corsia preferenziale che sarebbe destinata a restare in piedi anche in una fase successiva alla cessazione dei divieti di ingresso in territorio americano). Unitamente ai divieti indirizzati specificamente alle persone provenienti da una serie di stati a chiara maggioranza musulmana, l’esenzione in realtà autorizza un’applicazione differenziata dei meccanismi di asilo in ragione della religione. L’aspettativa di una preferenza schiacciante a favore delle persone di religione cristiana su quelle di religione musulmana è contraria al principio di non-discriminazione sancito sia dalla Convenzione ONU che da altri trattati, nonchè dal diritto internazionale generale.
Sebbene il decreto non menzioni né la fede musulmana né quella cristiana, vi sono buoni motivi per ritenere che l’intreccio fra le restrizioni ed esenzioni discrezionali da esso previste produca per lo meno un effetto indiretto discriminatorio (distinto, cioè, da una specifica volontà discriminatoria). Il diritto internazionale dei diritti umani, fra gli altri sistemi giuridici, vieta difatti misure che, benché apparentemente neutrali, creino di fatto una situazione di particolare e ingiustificato svantaggio per determinati settori della popolazione o determinate persone in ragione del sesso, della religione o altri motivi ritenuti normalmente inammissibili. È quasi impossibile in questo senso dissociare i toni e le promesse in chiave anti-musulmana della campagna elettorale di Trump dalle distinzioni sancite dal decreto. Nessuna misura fondata su motivi di sicurezza nazionale, neppure in stati di emergenza, è esente dal divieto di differenziazioni discriminatorie.
L’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani ha duramente condannato il provvedimento e la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha riassunto le preoccupazioni europee ribadendo la logica del funzionamento della Convenzione del 1951 e gli obblighi sottoscritti dagli Stati Uniti in base al Protocollo del 1967. Il richiamo agli impegni assunti da uno stato firmatario di un trattato sui diritti umani da parte di un altro state contraente è una modalità minima, ma importante, per esercitare pressione sul governo inadempiente. Nonostante il clima di notevole incertezza politica che avvolge il decreto immigrati, è assai improbabile che queste critiche possano investire i massimi organismi di sicurezza internazionale, benché sia ragionevole attendersi una vigilanza più intensa da parte degli organi di controllo dei diritti umani delle Nazioni Unite.
Nel breve termine un test fondamentale sarà fornito piuttosto dalla disponibilità dei tribunali interni a limitare l’applicabilità del decreto o persino chiederne la revoca per inconstituzionalità dinanzi alla Corte Suprema. Resterà da chiarire il ruolo del diritto internazionale nell’applicare la legislazione nazionale. Saranno le corti recettive all’idea che i trattati sui diritti umani sottoscritti dal governo americano prevalgano sul decreto? Sarà la Corte Suprema unita (qualora intervenisse) a difendere il principio di non-discriminazione contro le restrizioni draconiane di Trump? Solo il tempo potrà darci una risposta.
Senza dubbio il fortemente contestato decreto del Presidente Trump fornisce il quadro giuridico, politico e simbolico per aspri confronti sul rapporto fra inclinazioni nazionaliste e valori globali, immigrazione e terrorismo, pluralismo culturale e dominanza culturale.