di Marta Gatti – Radio Popolare/Esteri
Le Filippine non sono un paese per chi difende la terra e le risorse naturali. Secondo il rapporto pubblicato dall’organizzazione Pesticide Action Network di Asia e Pacifico nel paese sarebbero stati uccise due persone alla settimana, nell’anno appena passato. Le ultime vittime del 2017 sono stati due attivisti per i diritti terrieri. Sono stati uccisi mentre partecipavano ad una missione sul campo, per indagare le violenze dei militari nei confronti di alcune comunità contadine. Secondo il rapporto, le Filippine risultano al primo posto per numero di omicidi collegati alle lotte per la terra, in particolare nelle comunità rurali e tra le popolazioni indigene. Molte vittime di questa ondata di omicidi, infatti, sono rappresentanti dei movimenti contadini o leader indigeni. Gli attivisti chiedono una riforma della proprietà terriera e protestano contro l’espropriazione delle terre da parte di compagnie private. Secondo i difensori dei diritti umani le violenze sarebbero aumentate dopo l’imposizione della legge marziale sull’isola di Mindanao, nel sud del paese. Questa misura, voluta dal presidente Rodrigo Duterte per combattere il fondamentalismo islamico, avrebbe garantito la mano libera per militari, paramilitari e guardie armate private, denunciano le ONG.
I conflitti terrieri sono connessi all’iniqua distribuzione delle terre, nonostante le diverse riforme fondiarie approvate nel paese. Secondo la fondazione Land Portal, che si occupa di studiare la gestione delle terre, la maggioranza della popolazione rurale non ha accesso ai campi e alle risorse naturali. Le terre considerate più fertili, inoltre, sono nelle mani di proprietari privati. Contribuiscono all’aumento dei conflitti terrieri anche la presenza di attività minerarie, che hanno provocato la perdita di foreste e gli sfratti forzati della popolazione locale.
Ad essere particolarmente colpiti dalle uccisioni e dalle violenze sono gli indigeni Lumad, nel sud delle filippine sull’isola di Mindanao. Le comunità contestano la presenza di piantagioni e di installazioni minerarie sulle loro terre ancestrali, vicino ai loro villaggi. I militari giustificano l’uso della violenza in alcune aree abitate dai Lumad, accusandoli di essere rappresentanti di una milizia comunista, il New People’s Army. Secondo il governo molte uccisioni sarebbero state accidentali, frutto del fuoco incrociato tra militari e ribelli. Il report del’organizzazione sostiene invece che i regimi repressivi generino un clima di impunità per chi viola i diritti di contadini e comunità indigene.
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