Diciassette anni fa, il 20 luglio, a Genova le drammatiche ore della repressione di un Movimento che chiedeva un altro mondo possibile e l’omicidio di Carlo Giuliani, in Piazza Alimonda. Pubblichiamo il testo dell’intervento di Danilo De Biasio al convegno “G8 Genova 2001 – La generazione che perse la voce” che si è svolto alla Fondazione Feltrinelli di Milano martedì 18 giugno di un anno fa. Un incontro con le testimonianze e le voci di giornalisti, scrittori, sociologi e storici presenti a Genova o che su Genova hanno scritto e lavorato.
Il 19 luglio si ricorda la strage di Borsellino e della sua scorta. Un magistrato che stava provando a liberarci dall’alleanza fra mafia e politica, ucciso insieme a 5 agenti. Meno di due mesi prima, ai funerali di Falcone, i poliziotti avevano contestato i rappresentanti delle istituzioni e le loro lacrime di coccodrillo. Per la mia generazione quelli erano gli sbirri: avevamo un comune obiettivo. Era il 1992. Meno di 10 anni dopo quegli uomini in divisa sono diventati i miei nemici, quelli che mi violentavano, mi pestavano, limitavano le mie libertà. Come è potuto accadere? La causa ha precisi responsabili: Gianni De Gennaro e i suoi fedelissimi. Non a caso al vertice della polizia nel luglio 2001, non a caso presenti a Genova in quei giorni. Tra le conseguenze della macelleria messicana durante il G8 c’è anche questo: ci hanno fatto perdere la fiducia nelle istituzioni chiamate a difendere la mia libertà e che invece me la toglievano arbitrariamente.
Radio Popolare ha raccontato il 2001 così: l’anno era cominciato con George Bush alla Casa Bianca; in Italia il Governo di centrosinistra di Amato era in agonia. Al G8 di Genova si affacciavano più generazioni anagrafiche, che condividevano alcune caratteristiche: avevano voglia di studiare (ad ogni forum sociale la parte preponderante erano i seminari) erano portatrici di culture meticce e alternative. Leggete le conclusioni dei Forum sociali, c’è tutto quello che è accaduto dopo: la finanziarizzazione dell’economia che accresce le disuguaglianze e distrugge i diritti prima di implodere; la lotta al terrorismo che crea le condizioni per la guerra permanente; il modello di sviluppo liberista che sta distruggendo il pianeta lasciando senza acqua, terra e cibo milioni di persone.
Ma attenzione: le riunioni dei Forum sociali sfociavano in una proposta di cambiamento. Lo slogan più famoso di Genova è stato “un altro mondo è possibile”. Prima e dopo il 2001, non a caso, gli slogan che abbiamo sentito più spesso premettevano una negazione: No Nuke, No Tav, No Expo… Per arrivare ad un altro slogan propositivo c’è voluto Obama, con il suo “Yes, we can”. Ma ci sono voluti 7 anni anni – e che anni! – tra guerre terrorismo e crisi.
Le generazioni di Genova venivano da esperienze diverse, ma le loro radici erano sostanzialmente progressiste; molta sinistra e molto cattolicesimo non convenzionale, parecchio pensiero ecologista. Non posso dimenticare che alla prima riunione di febbraio 2001, all’ex Chiesa di San Salvatore c’era pure un ramo dissidente dei testimoni di Geova! Queste generazioni erano unite da un sostanziale desiderio di emancipazione. Erano persone cresciute urlando insieme ai Sex Pistols “no future”, si riconoscevano nel McJob inventato da Douglas Coupland in “Generazione X”. In Italia la precarietà era stata istituzionalizzata: è del 1997 il cosiddetto pacchetto Treu, che – rimaneggiato – ha permesso le forme di lavoro precario tuttora possibili. Liberi finalmente dalla gabbia dei blocchi (“atlantico” e “sovietico”), aiutati dalla facilità di comunicazione (la globalizzazione dal basso) queste persone scoprivano una nuova forma di internazionalismo, meno rigido ideologicamente e più saldato ai bisogni reali: Vandana Shiva che rivendicava le lotte contro le multinazionali e le istituzioni globali che rubavano l’acqua ai contadini indiani parlava la stessa lingua dei cittadini di Agrigento che devono comprarsela perché non esce dai loro rubinetti. La pericolosità del movimento altromondialista è tutta qui: un linguaggio universale contro l’iniquità.
Torniamo al 2001. Da una parte Bush e Berlusconi, dall’altra Susan George e don Gallo. Da una parte interessi forti e ben identificati, dall’altra un’ammirevole armata Brancaleone. Si è arrivati al luglio con un escalation in cui tutti i media mainstream, nessuno escluso, hanno fatto un lavoro sporco. Il simbolo, a imperitura memoria, è la velina pubblicata da quasi tutti sulle sacche di sangue infetto da tirare contro la polizia. Andate a vedere chi ha firmato quegli articoli: sono ancora ai loro posti. Fossi un direttore avrei mandato a casa immediatamente un redattore che scrive certa immondizia. Un’amica, che nei giorni del G8 aveva un ruolo fondamentale ma in ombra, mi ha chiesto di condividere con voi qualche sua riflessione. Mi ha ricordato che alcune di quelle firme – cito testualmente – “cambiarono opinione proprio durante lo scorrere degli eventi”. Meno male.
Fin qui quanto è accaduto prima. La stessa amica ha trovato le parole giuste per esprimere quello che sarebbe accaduto durante il G8: “Il disastro era chiaro. So già – scrive – che per alcuni il disastro arrivava da una parte e per altri arrivava da un’altra parte: non mi interessa e non mi interessava allora. Il disastro stava arrivando, bisognava trovare una soluzione. Io non ero ingenua. Perché lo erano altri?” Ha ragione questa amica a descrivere i fatti di Genova come un treno in corsa che tutti sapevamo si sarebbe schiantato contro il movimento. Ma temo che ci fosse poco da fare per evitarlo. Perché se sono vere le descrizioni che ho fatto finora è evidente che la risposta militare violentissima contro le persone è stata pianificata per distruggere sul nascere un movimento che conteneva tracce di solidità politica. Fatte le doverose proporzioni, Genova è stata la nostra Piazza Tien An Men.
E per una generazione di giovani che si affacciava alla politica è stata anche l’ultimo impegno pubblico.
Molti riconoscono a Radio Popolare un ruolo straordinario nel raccontare i fatti di Genova, perfino di aver aiutato i manifestanti a cercare le “vie di fuga” migliori tra le strade della città. Sono meriti che volentieri accettiamo. Ma dobbiamo essere anche orgogliosi di aver capito cosa stava accadendo e di non aver mai lasciato soli chi era a Genova. La voce che avete sentito è di Sara. Aveva 21 anni. Si affacciava al mondo con quella magnifica passione e curiosità che si ha a quell’età: non sapeva neppure come chiamare i colpi che ha preso da uomini in divisa. Voleva un mondo migliore, più giusto. Si è trovata con una trauma cranico, una kapò che la minacciava, per tre giorni è stata desaparecida. Sara, come tante altre, ha deciso di smettere. Adesso vive all’estero, è diventata mamma. Sono certo che continua a credere in quegli ideali che l’avevano portata a Genova, a battersi per un mondo migliore e più giusto, ma senza più alcuna fiducia. E come averne ancora dopo le botte della polizia, l’arbitrio della kapò, e la loro impunità. Un’impunità sostanziale, sancita dal comportamento vile di molti agenti e dei loro superiori.
Sara rappresenta quella generazione che perse la voce. Non persero la voce invece i cittadini dell’America Latina. Avendo subito l’esperimento liberista negli anni ‘80 e ‘90, erano tra i più titolati a parlare (e infatti era folta la delegazione latinoamericana a Genova). Se ci pensate è naturale: lì è nata la teologia della liberazione e gli esempi di rivoluzione più recenti, anche molto diversi. Quattro anni dopo Genova buona parte del continente latinoamericano aveva governi progressisti, che della lotta alle disuguaglianze e per i beni comuni avevano fatto il loro cavallo di battaglia: Brasile, Cile, Argentina, Venezuela, Ecuador, Bolivia, Uruguay. Adesso la situazione si è ribaltata, in un movimento a pendolo che in democrazia è accettabile. Questo è l’ultimo fotogramma che voglio scattare: se in Occidente Genova ha creato riflusso e in America Latina no, forse dipende dal fatto che quella risposta militare violentissima ha funzionato su una società opulenta, ma poco ha potuto contro chi non ha niente da perdere. E questo spiega perché forme di resistenza “muscolare”, mai di massa ma capillari, si presentano ancora oggi ad ogni incontro internazionale. Ci sarà sempre qualcuno che – più o meno a ragione, arrogandosi il diritto di essere l’avanguardia di una lotta – si sente un Davide contro Golia.