“Dove sei? Raggiungimi, yalla ta3ali, vieni, che devi assolutamente provare una cosa!”, mi dice al telefono M., la mia vulcanica amica gazana. Lei è da Mac, il negozio di make up, a provare i nuovi colori di fard, io alla farmacia-drugstore a poche decine di metri di distanza. È uno di quei pomeriggi ‘impegnativi’ che ci concediamo quando M. esce dalla Striscia e vogliamo solo svagarci, non pensare a nulla, e fare ‘le scorte’ per Gaza, ovvero comprare tutto quello che a Gaza non si riesce a trovare, dalle capsule Nespresso al profumo per la collega, a qualche regalo per le figlie, un giro per Zara, e chi più ne ha più ne metta.
All’amichevole tradizione palestinese di portare dolci o cioccolatini al ritorno da un viaggio, dai datteri sacri di chi torna dalla Mecca, ai Baci Perugina di chi passa per l’Italia – nessuno ne è esente, si aggiunge, sempre nello spirito “chi può, porti”, l’altrettanto amichevole tradizione di far arrivare a Gaza pacchi, regali e richieste per colleghi e amici – e amici di amici, e così via. Non è molto diverso da noi italiani all’estero, famosi per l’import/export di parmigiano e salame in tutto il mondo, in supporto della comunità tricolore.
È l’economia della reciprocità, quella che crea legami, relazioni e fiducia. Marcel Mauss e la teoria del dono.
Insomma, da Gaza si esce con un trolley vuoto, e si rientra con uno pieno. La mamma di M., al telefono da casa sua a Gaza City, mi chiede se può fare il tiramisù con il Philadelphia. Le dico che no, al massimo ci può fare un cheese-cake, e che appena trovo savoiardi e mascarpone a Gerusalemme, faccio in modo di farglieli arrivare. Tamam, bene, però ricordati di scrivermi la ricetta per email, si premura.
Siamo al Mamilla mall, un centro commerciale all’aperto appena fuori dalla Città Vecchia, all’altezza di Jaffa Gate, la porta di Giaffa, uno dei più conosciuti punti di accesso al quadrilatero sacro. Costruito in pieno stile gerosolimitano, pietra bianca esterna a rivestire edifici che ricordano un antico suq levantino, con archi e scalinate, il mall è un altro degli innumerevoli luoghi controversi della geopolitica del conflitto e della città contesa.
Non solo un’area (molto) commerciale si inserisce nel panorama poetico della classica immagine della Gerusalemme in pietra chiara, appena a ridosso delle mura di Solimano, che circondano romanticamente la Città Vecchia, ma diverse leggende attribuiscono le pietre usate nella costruzione dei vari negozi del mall a pietre della Città Vecchia, ‘rubate’ nelle differenti ondate di espropriazione e demolizioni. In alcuni punti le pietre sono segnate con numeri e sigle.
In realtà la costruzione è molto piu’ moderna delle epoche delle espropriazioni, iniziate nel 1949 e nel 1967, e semmai il suo massimo peccato è di sorgere accanto all’antico – e ormai inesistente – Mamilla Cemetery, che ospitava caduti musulmani e crociati di almeno un millenio fa, e alle Mamilla Pools, un bacino idrico aperto di epoca romana, ora trasformato in un teatro estivo, e di aver fatto quindi diventare magicamente la zona una delle più ambite aree residenziali del centro.
Raggiungo M., seduta come una regina sullo sgabello-trono di fronte all’esperta truccatrice che le sta applicando polveri dorate e sfumando ombretti con sapienza e precisione. So già come andrà a finire. Se c’è una cosa che ho imparato dalle donne arabe è lo stile, l’attenzione ai dettagli, la cura anche, se puoi, sotto le bombe. L’eleganza non solamente estetica, bensì simbolo di imponenza, dignità, rispetto. E probabilmente non potrò fare a meno dell’ultimo ‘illuminante in crema’ che M. mi descrive accuratamente, guarda come ti illumina gli zigomi habibty, mi dice, ti sta benissimo.
La truccatrice, una giovane ragazza israeliana, bravissima e bellissima, ci sente scambiare qualche parola in arabo, è incuriosita. Inizia la solita, prevedibile, sequenza di domande. Vivete qui? A Gerusalemme? Siete sorelle? Quando hai a che fare con rossetti e pennelli, ci vuole poco a fare amicizia. Raccontiamo cosa facciamo qui, che lavoriamo sulla ricostruzione di Gaza. Che sia la ricostruzione dopo l’ultima guerra, è abbastanza scontato.
Noi non la nominiamo, la guerra, ma è la convitata di pietra, aleggia nella stanza. Da un momento all’altro potremmo ritrovarci su posizioni opposte, magari a discutere più che animatamente. Abigail, questo il nome della truccatrice, ci spiega significa “felicità”, ci racconta la sua esperienza estiva. Aveva paura, a Gerusalemme suonarono le sirene più di una volta.
È assurdo, penso. Così vicine e così lontane, queste due donne. In tutta la loro vita, israeliani e palestinesi vedono solo una parte – ristretta, non rappresentativa e sicuramente distorta – degli altri. Separati in casa, molti scrittori li descrivono così. Se sei sulla linea del fronte, conoscerai principalmente soldati – se sei palestinese, o razzi – se sei israeliano. Se non lo sei, come la maggior parte degli israeliani, non è detto che tu sappia come è la vita al di là della Linea Verde. O del border crossing di Erez. Putroppo invece quasi tutti i palestinesi sono, direttamente o indirettamente, sulla linea del fronte.
M. e Abi, questo il soprannome con cui ci chiede di chiamarla, continuano a parlare, a farsi domande. È evidente che Manal ce la sta mettendo tutta per farle capire cosa si è vissuto “dall’altra parte”. Si è creata un’atmosfera impalpabile, di curiosità e contatto, di confidenza. E M. è pronta a fare outing. “Tu sai da dove vengo?” le chiede con un sorriso, “indovina dove arriveranno questi nuovi ombretti e rossetti e creme e queste altre quattro borse di acquisti”, indicando le buste di Mango, Zara e il trolley che inizia ad essere pieno. E’ seria, ma serena. Non gioca, come non gioca nessuno di tutti i palestinesi che ho conosciuto, umani e dignitosi, la carta del vittimismo. Né io quella giuridico legale, non mi sembra il momento di una lezione di diritto internazionale. Stiamo parlando da persona a persona. Abi è quasi incredula, non ha mai visto una palestinese di Gaza.
M. le mostra la tessera di identità, verde per i gazani. Nell’immaginario collettivo israeliano di un tempo, Gaza occupa un posto d’onore e un periodo d’oro, gli israeliani andavano al mare a Gaza, i Gazani uscivano a fare spese e passeggiate a Giaffa. Se lo ricorda anche M., che andavano in spiaggia in costume. Ora è sinonimo di disperazione, dentro, e terrore, da fuori.
Mostriamo ad Abi le foto delle macerie che abbiamo sugli Iphone, le chiediamo con tutta la dolcezza del mondo, lei, che sa come ha vissuto sulla sua pelle di israeliana quegli orrendi mesi estivi, se può immaginare come abbiano potuto viverli le persone di Gaza, che le saferoom foderate di piombo non le hanno, e nemmeno le sirene, o l’Iron Dome. Che si sono rifugiati nelle scuole dell’ONU per trovare ancora più morte e disperazione. Che ora i bambini a scuola non ci vogliono più andare, dopo aver visto amici, padri, madri, morire sotto i bombardamenti in un posto che avrebbe dovuto essere intoccabile, protettivo. Che non sapevano più dove andare, o come ripararsi. Che erano pronti a morire tutti insieme, tanto era questione di tempo.
È un racconto umano, che viene dal cuore e punta al cuore. M. si emoziona mentre rivive quei momenti, io con lei. Credo anche Abi. E le altre colleghe truccatrici. Il silenzio è sceso nel negozio, M., bella come il sole col le sue sopracciglia imponenti perfettamente disegnate e l’aria di chi ha ancora addosso gli effetti di sei anni di blocco e una vita di fatiche e li sostiene senza vergogna, e possibilmente senza rughe, ha tutti gli occhi e le orecchie addosso. “Racconta anche questo ai tuoi amici, a chi incontri”, le dice seriamente. “Racconta che noi vogliamo solo una vita normale”.
È ora di pagare, compro l’illuminante di cui ormai non posso più fare a meno, e M. si fa spiegare ancora una volta in che sequenza applicare la serie di creme, cremine e colori appena comprati. Abi elenca, in ebraico, su un foglietto. M. appunta la traduzione accanto ad ogni punto, per essere sicura di non sbagliarsi, e fa una foto con l’Iphone. Una Stele di Rosetta 2.0 per risolvere il conflitto in Medio Oriente e avvicinare, tanto per cominciare, due metà di posti lontani, ma non poi così tanto, dato che il cielo in fondo è lo stesso.
A presto, certo, a presto, e grazie. Dopo una stretta di mano formale, Abi e M. devono aver pensato entrambe che era troppo fin troppo formale, si scrutano ancora per qualche secondo, e poi si abbracciano, si abbracciano a lungo, si baciano sulle guance, nonostante tutti i rossetti e colori, come nuove amiche ritrovate dopo esser state separate da troppo tempo da muri di ignoranza, di lontananza mentale imposta, più che geografica. Alla fine, Gaza dista da Gerusalemme solo una sessantina di chilometri. E anni luce di vita.
Non capita mai, o meglio, cerchiamo di non far mai capitare, di parlare di politica in pubblico, tantomeno nei negozi, tantomeno tra israeliani e palestinesi. Non vuol dire ignorarsi, ma forse quieto vivere sì, soprattutto per chi, nel gioco di poteri, ne ha meno degli altri. Il conflitto non lo risolvi certo dal fornaio. E invece, incredule tutte e tre, siamo stupite di poter aver scambiato così tanto con così poco, in un incontro casuale che ha lasciato il segno a tutte. Sarà che finalmente abbiamo messo via le identità ‘dominanti’, i ruoli, i copioni, e abbiamo lasciato spazio alle altre nostre dimensioni, sarà che, come dice Sen, non siamo mai un’identità sola, non facciamoci ricattare da chi tenta di sfruttarla. Ricordiamoci di tutte le altre, e di quella più importante. Quella umana. D’altronde è quello che Vittorio non smetteva di dire, restiamo umani.
Questa terra, con tutte le sue barriere fisiche e non, è piena di storie di condivisione, oltre che di divisioni. Donne che si conoscono in un ambulatorio medico, in attesa di una chemioterapia, o in una sala parto, e che condividono emozioni comuni, emozioni umane. Donne e uomini uniti dal dolore della perdita di figli in guerra. Israeliani che mettono a disposizione le loro macchine – che possono attraversare i checkpoint senza problemi – e il loro tempo per portare palestinesi negli ospedali al di qua della Linea Verde, soprattutto bambini.
Persone che si sono rese conto che esistono altri linguaggi, altre diplomazie, di quelle delle misure geografiche o delle stelle sui passaporti, di quelle che mettono le persone in gerarchie di potere, segregati e arroccati nelle loro divisioni. E che forse hanno capito per primi, sulla loro pelle, che, se si vuole risolvere questo conflitto, o almeno cominciare a parlarne, invece di continuare a fare i separati in casa, si deve tornare alle persone, farle conoscere, mutuare le loro emozioni. Dare voce alle voci. Ri-umanizzarci, tutti, nel senso di vedere gli altri come esseri umani.
Ripassiamo da Mac qualche giorno fa, c’è un nuovo rossetto da provare, ti sta benissimo habibty, devi assolutamente prenderlo, mi dice M. convintissima. Non provo nemmeno ad opporre resistenza – e come potrei? Chiediamo di Abi, ma quel giorno non lavora, ci spiega una sua collega. Dille che la saluto, dice M, sicuramente si ricorda di me, sono la sua amica da Gaza.
La sua amica a prova di rossetto.
All’amichevole tradizione palestinese di portare dolci o cioccolatini al ritorno da un viaggio, dai datteri sacri di chi torna dalla Mecca, ai Baci Perugina di chi passa per l’Italia – nessuno ne è esente, si aggiunge, sempre nello spirito “chi può, porti”, l’altrettanto amichevole tradizione di far arrivare a Gaza pacchi, regali e richieste per colleghi e amici – e amici di amici, e così via. Non è molto diverso da noi italiani all’estero, famosi per l’import/export di parmigiano e salame in tutto il mondo, in supporto della comunità tricolore.
È l’economia della reciprocità, quella che crea legami, relazioni e fiducia. Marcel Mauss e la teoria del dono.
Insomma, da Gaza si esce con un trolley vuoto, e si rientra con uno pieno. La mamma di M., al telefono da casa sua a Gaza City, mi chiede se può fare il tiramisù con il Philadelphia. Le dico che no, al massimo ci può fare un cheese-cake, e che appena trovo savoiardi e mascarpone a Gerusalemme, faccio in modo di farglieli arrivare. Tamam, bene, però ricordati di scrivermi la ricetta per email, si premura.
Siamo al Mamilla mall, un centro commerciale all’aperto appena fuori dalla Città Vecchia, all’altezza di Jaffa Gate, la porta di Giaffa, uno dei più conosciuti punti di accesso al quadrilatero sacro. Costruito in pieno stile gerosolimitano, pietra bianca esterna a rivestire edifici che ricordano un antico suq levantino, con archi e scalinate, il mall è un altro degli innumerevoli luoghi controversi della geopolitica del conflitto e della città contesa.
Non solo un’area (molto) commerciale si inserisce nel panorama poetico della classica immagine della Gerusalemme in pietra chiara, appena a ridosso delle mura di Solimano, che circondano romanticamente la Città Vecchia, ma diverse leggende attribuiscono le pietre usate nella costruzione dei vari negozi del mall a pietre della Città Vecchia, ‘rubate’ nelle differenti ondate di espropriazione e demolizioni. In alcuni punti le pietre sono segnate con numeri e sigle.
In realtà la costruzione è molto piu’ moderna delle epoche delle espropriazioni, iniziate nel 1949 e nel 1967, e semmai il suo massimo peccato è di sorgere accanto all’antico – e ormai inesistente – Mamilla Cemetery, che ospitava caduti musulmani e crociati di almeno un millenio fa, e alle Mamilla Pools, un bacino idrico aperto di epoca romana, ora trasformato in un teatro estivo, e di aver fatto quindi diventare magicamente la zona una delle più ambite aree residenziali del centro.
Raggiungo M., seduta come una regina sullo sgabello-trono di fronte all’esperta truccatrice che le sta applicando polveri dorate e sfumando ombretti con sapienza e precisione. So già come andrà a finire. Se c’è una cosa che ho imparato dalle donne arabe è lo stile, l’attenzione ai dettagli, la cura anche, se puoi, sotto le bombe. L’eleganza non solamente estetica, bensì simbolo di imponenza, dignità, rispetto. E probabilmente non potrò fare a meno dell’ultimo ‘illuminante in crema’ che M. mi descrive accuratamente, guarda come ti illumina gli zigomi habibty, mi dice, ti sta benissimo.
La truccatrice, una giovane ragazza israeliana, bravissima e bellissima, ci sente scambiare qualche parola in arabo, è incuriosita. Inizia la solita, prevedibile, sequenza di domande. Vivete qui? A Gerusalemme? Siete sorelle? Quando hai a che fare con rossetti e pennelli, ci vuole poco a fare amicizia. Raccontiamo cosa facciamo qui, che lavoriamo sulla ricostruzione di Gaza. Che sia la ricostruzione dopo l’ultima guerra, è abbastanza scontato.
Noi non la nominiamo, la guerra, ma è la convitata di pietra, aleggia nella stanza. Da un momento all’altro potremmo ritrovarci su posizioni opposte, magari a discutere più che animatamente. Abigail, questo il nome della truccatrice, ci spiega significa “felicità”, ci racconta la sua esperienza estiva. Aveva paura, a Gerusalemme suonarono le sirene più di una volta.
È assurdo, penso. Così vicine e così lontane, queste due donne. In tutta la loro vita, israeliani e palestinesi vedono solo una parte – ristretta, non rappresentativa e sicuramente distorta – degli altri. Separati in casa, molti scrittori li descrivono così. Se sei sulla linea del fronte, conoscerai principalmente soldati – se sei palestinese, o razzi – se sei israeliano. Se non lo sei, come la maggior parte degli israeliani, non è detto che tu sappia come è la vita al di là della Linea Verde. O del border crossing di Erez. Putroppo invece quasi tutti i palestinesi sono, direttamente o indirettamente, sulla linea del fronte.
M. e Abi, questo il soprannome con cui ci chiede di chiamarla, continuano a parlare, a farsi domande. È evidente che Manal ce la sta mettendo tutta per farle capire cosa si è vissuto “dall’altra parte”. Si è creata un’atmosfera impalpabile, di curiosità e contatto, di confidenza. E M. è pronta a fare outing. “Tu sai da dove vengo?” le chiede con un sorriso, “indovina dove arriveranno questi nuovi ombretti e rossetti e creme e queste altre quattro borse di acquisti”, indicando le buste di Mango, Zara e il trolley che inizia ad essere pieno. E’ seria, ma serena. Non gioca, come non gioca nessuno di tutti i palestinesi che ho conosciuto, umani e dignitosi, la carta del vittimismo. Né io quella giuridico legale, non mi sembra il momento di una lezione di diritto internazionale. Stiamo parlando da persona a persona. Abi è quasi incredula, non ha mai visto una palestinese di Gaza.
M. le mostra la tessera di identità, verde per i gazani. Nell’immaginario collettivo israeliano di un tempo, Gaza occupa un posto d’onore e un periodo d’oro, gli israeliani andavano al mare a Gaza, i Gazani uscivano a fare spese e passeggiate a Giaffa. Se lo ricorda anche M., che andavano in spiaggia in costume. Ora è sinonimo di disperazione, dentro, e terrore, da fuori.
Mostriamo ad Abi le foto delle macerie che abbiamo sugli Iphone, le chiediamo con tutta la dolcezza del mondo, lei, che sa come ha vissuto sulla sua pelle di israeliana quegli orrendi mesi estivi, se può immaginare come abbiano potuto viverli le persone di Gaza, che le saferoom foderate di piombo non le hanno, e nemmeno le sirene, o l’Iron Dome. Che si sono rifugiati nelle scuole dell’ONU per trovare ancora più morte e disperazione. Che ora i bambini a scuola non ci vogliono più andare, dopo aver visto amici, padri, madri, morire sotto i bombardamenti in un posto che avrebbe dovuto essere intoccabile, protettivo. Che non sapevano più dove andare, o come ripararsi. Che erano pronti a morire tutti insieme, tanto era questione di tempo.
È un racconto umano, che viene dal cuore e punta al cuore. M. si emoziona mentre rivive quei momenti, io con lei. Credo anche Abi. E le altre colleghe truccatrici. Il silenzio è sceso nel negozio, M., bella come il sole col le sue sopracciglia imponenti perfettamente disegnate e l’aria di chi ha ancora addosso gli effetti di sei anni di blocco e una vita di fatiche e li sostiene senza vergogna, e possibilmente senza rughe, ha tutti gli occhi e le orecchie addosso. “Racconta anche questo ai tuoi amici, a chi incontri”, le dice seriamente. “Racconta che noi vogliamo solo una vita normale”.
È ora di pagare, compro l’illuminante di cui ormai non posso più fare a meno, e M. si fa spiegare ancora una volta in che sequenza applicare la serie di creme, cremine e colori appena comprati. Abi elenca, in ebraico, su un foglietto. M. appunta la traduzione accanto ad ogni punto, per essere sicura di non sbagliarsi, e fa una foto con l’Iphone. Una Stele di Rosetta 2.0 per risolvere il conflitto in Medio Oriente e avvicinare, tanto per cominciare, due metà di posti lontani, ma non poi così tanto, dato che il cielo in fondo è lo stesso.
A presto, certo, a presto, e grazie. Dopo una stretta di mano formale, Abi e M. devono aver pensato entrambe che era troppo fin troppo formale, si scrutano ancora per qualche secondo, e poi si abbracciano, si abbracciano a lungo, si baciano sulle guance, nonostante tutti i rossetti e colori, come nuove amiche ritrovate dopo esser state separate da troppo tempo da muri di ignoranza, di lontananza mentale imposta, più che geografica. Alla fine, Gaza dista da Gerusalemme solo una sessantina di chilometri. E anni luce di vita.
Non capita mai, o meglio, cerchiamo di non far mai capitare, di parlare di politica in pubblico, tantomeno nei negozi, tantomeno tra israeliani e palestinesi. Non vuol dire ignorarsi, ma forse quieto vivere sì, soprattutto per chi, nel gioco di poteri, ne ha meno degli altri. Il conflitto non lo risolvi certo dal fornaio. E invece, incredule tutte e tre, siamo stupite di poter aver scambiato così tanto con così poco, in un incontro casuale che ha lasciato il segno a tutte. Sarà che finalmente abbiamo messo via le identità ‘dominanti’, i ruoli, i copioni, e abbiamo lasciato spazio alle altre nostre dimensioni, sarà che, come dice Sen, non siamo mai un’identità sola, non facciamoci ricattare da chi tenta di sfruttarla. Ricordiamoci di tutte le altre, e di quella più importante. Quella umana. D’altronde è quello che Vittorio non smetteva di dire, restiamo umani.
Questa terra, con tutte le sue barriere fisiche e non, è piena di storie di condivisione, oltre che di divisioni. Donne che si conoscono in un ambulatorio medico, in attesa di una chemioterapia, o in una sala parto, e che condividono emozioni comuni, emozioni umane. Donne e uomini uniti dal dolore della perdita di figli in guerra. Israeliani che mettono a disposizione le loro macchine – che possono attraversare i checkpoint senza problemi – e il loro tempo per portare palestinesi negli ospedali al di qua della Linea Verde, soprattutto bambini.
Persone che si sono rese conto che esistono altri linguaggi, altre diplomazie, di quelle delle misure geografiche o delle stelle sui passaporti, di quelle che mettono le persone in gerarchie di potere, segregati e arroccati nelle loro divisioni. E che forse hanno capito per primi, sulla loro pelle, che, se si vuole risolvere questo conflitto, o almeno cominciare a parlarne, invece di continuare a fare i separati in casa, si deve tornare alle persone, farle conoscere, mutuare le loro emozioni. Dare voce alle voci. Ri-umanizzarci, tutti, nel senso di vedere gli altri come esseri umani.
Ripassiamo da Mac qualche giorno fa, c’è un nuovo rossetto da provare, ti sta benissimo habibty, devi assolutamente prenderlo, mi dice M. convintissima. Non provo nemmeno ad opporre resistenza – e come potrei? Chiediamo di Abi, ma quel giorno non lavora, ci spiega una sua collega. Dille che la saluto, dice M, sicuramente si ricorda di me, sono la sua amica da Gaza.
La sua amica a prova di rossetto.