Nel silenzio dei media internazionali continua la guerra strisciante fra India e Pakistan. Una guerra fatta di attentati a cui seguono ondate di repressione. L’ultimo caso è di poche ore fa. Un gruppo di separatisti ha attaccato una pattuglia di paramilitari indiani nel distretto di Anantnag, uccidendone cinque. Nell’operazione successiva del Central Reserve Police Force un separatista è stato ucciso. Secondo il portavoce della polizia indiana sarebbe uno straniero, ma non ne ha indicato la nazionalità. L’attentato è stato rivendicato da Al-Umar Mujahideen, una forza che colpendo obiettivi indiani cerca di innescare la separazione della regione dall’India. Da febbraio, quando un attentato uccise 46 paramilitari e il successivo bombardamento indiano provocò diverse vittime, la tensione in quel confine si sta alzando. Complice l’atteggiamento nazionalista di Narendra Modi, appena confermato Primo Ministro a New Dehli e il ruolo che il Pakistan vorrebbe giocare nella ricomposizione strategica dell’area che comprende l’Afghanistan.
A farne le spese, come sempre, è la popolazione civile del Kashmir, che ha già subito lutti e repressioni in ben tre guerre scoppiate tra India e Pakistan nel 1948, 1965 e 1971. Lo ha raccontato bene all’ultima edizione del Festival dei Diritti Umani Iffat Fatima, coraggiosa regista indiana, che con il suo film Blood lives its trail, ha descritto le sofferenze patite dalle famiglie vittime delle sparizioni forzate. Un film realizzato in nove anni, fatto di testimonianze personali e reminiscenze, documenti e verità negate. Un lavoro che vuole contrastare l’amnesia che riguarda il Kashmir come altre zone di conflitti dimenticati.
Amnesty International, proprio il 12 giugno, voleva presentare a New Dehli il suo dossier intitolato “La tirannia di una legge senza legge: imprigionati senza prove e senza processo. L’atto di pubblica sicurezza in Jammu e Kashmir”, ma le autorià indiane gliel’hanno vietato senza alcuna spiegazione. Secondo Amnesty International ci sono almeno 210 casi di attivisti arrestati e tuttora privati della libertà senza processo, in base alla legislazione d’emergenza.
Dal 1989, quando i gruppi separatisti musulmani filopakistani hanno aumentato le azioni armate contro l’India sarebbero morte almeno 70.000 persone.