È una guerra condotta per mare e per terra quella di Salvini all’immigrazione. Ovvero – vale la pena ricordarlo – a una componente della società che, solo a contare le persone residenti in Italia con cittadinanza straniera, si attesta oltre l’8% della popolazione del Paese.
di Enrica Rigo da Il Mulino
Per mare, la guerra è stata condotta attraverso una criminalizzazione senza precedenti dei salvataggi umanitari. Non solo di quelli effettuati dalle Ong, contro cui è stata giocata la retorica populista della sovranità sui propri confini contrapposta all’ingerenza di organizzazioni che, seppur umanitarie, sono per lo più straniere; ma anche di quelli doverosamente condotti dalla Guardia costiera. Una schizofrenia che, al di là dei dibattiti giuridici su quali siano i limiti alla competenza di una o dell’autorità, suona come una chiamata a serrare le fila, rivolta agli stessi apparati dello Stato, tipica dell’autoritarismo.
La guerra di terra, non meno spettacolarizzata, sta trovando formalizzazione in un decreto di cui stanno circolando le bozze in questi giorni (la più recente è del 13 settembre), ma era già iniziata lo scorso luglio con una circolare che, indebitamente (per un commento, Asgi del 6/07/2018), imponeva alle Commissioni territoriali per il riconoscimento del diritto d’asilo di operare una stretta sulla concessione della protezione umanitaria. Anche in questo caso, l’umanitario appare dunque al centro delle attenzioni di Salvini, avvicinando terra e mare in una connessione che vale la pena non dare per scontata.
La relazione introduttiva all’articolato giustifica il ricorso allo strumento del decreto legge come intervento normativo “necessario e urgente” per una riorganizzazione del sistema di protezione internazionale. I dati forniti nella relazione enfatizzano la sproporzione tra il numero di riconoscimenti da parte delle Commissioni territoriali delle forme di protezione disciplinate a livello europeo, status di rifugiato e protezione sussidiaria, e i permessi umanitari che variano tra il 25% e il 28%, percentuale alla quale è necessario aggiungere la quota esito dei giudizi di impugnazione contro il diniego della protezione, che in 1 caso su 4 si concludono con il riconoscimento della protezione umanitaria (e in molti altri casi – è bene ricordarlo – con il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria).
La logica degli uffici legislativi del ministero rovescia, dunque, quelle che sarebbero domande di senso comune: invece di chiedersi come mai, in Italia, i casi in cui è riconosciuta la protezione internazionale siano così al di sotto delle medie di molti Paesi europei (dati Eurostat), e perché i rigetti delle commissioni territoriali costringano i tribunali a farsi carico di un contenzioso così alto, la relazione lascia intendere che il problema da affrontare con “necessità e urgenza” sia l’utilizzo strumentale della domanda di protezione e l’esercizio del diritto di difesa, quest’ultimo già severamente limitato dagli interventi normativi del precedente governo.
La proposta non si spinge, in realtà, a riorganizzare la protezione internazionale, bensì – accanto a interventi, tutti peggiorativi, in tema cittadinanza, trattenimento e sistema di accoglienza – abroga la protezione umanitaria come istituto di carattere generale, i cui presupposti sono indicati dalle norme a oggi vigenti nei “gravi motivi di carattere umanitario” o “derivanti da obblighi costituzionali o internazionali”, la quale sarà sostituita da una serie di permessi tipizzati secondo una casistica prestabilita. L’obiettivo dichiarato nella relazione illustrativa è quello di eliminare la discrezionalità legata a “una definizione legislativa dai confini incerti”: la certezza del diritto è, dunque, brandita contro la ragionevolezza umanitaria del caso concreto!
È bene, tuttavia, ricordare che gli obblighi costituzionali e internazionali a fondamento della protezione umanitaria sono innanzitutto quelli derivanti dall’ articolo 10, comma 3 della Costituzione, e che la protezione umanitaria è stata il terreno su cui la giurisprudenza di merito e di legittimità ha elaborato uno degli esempi più fecondi di diritto vivente, di fatto, dando attuazione attraverso quest’istituto all’asilo costituzionale (per approfondimenti si legga Marco Benvenuti). Non si tratta di giudici che hanno travalicato il proprio ruolo a scapito dell’onnipotenza di un legislatore unto dal sacro crisma della rappresentanza politica, ma del funzionamento delle regole basilari dello Stato di diritto, per cui il potere non è condensato in un unico centro e la rivendicazione giurisdizionale dei diritti rappresenta un via, certo conflittuale, attraverso cui anche chi è escluso dal gioco della democrazia rappresentativa può agire le proprie ragioni. Ancora una volta, la guerra all’umanitario suona dunque anche come un monito a una serrata di fila attorno a un potere gerarchico e autoritario.
Chi si occupa di migrazioni sa bene che, negli ultimi anni, la richiesta di asilo e la protezione umanitaria hanno rappresentato l’unica possibilità di regolarizzarsi, non solo per chi è giunto in Italia durante la cosiddetta crisi dei rifugiati, ma anche per chi, già presente sul territorio, aveva perso la condizione di regolarità in seguito alla crisi economica o per chi vi lavorava privo di permesso di soggiorno. Se la retorica della crisi ha eclissato dal dibattito pubblico le migrazioni per lavoro, ridotte alla dicotomia tra veri e finti rifugiati, non ha certo fatto sparire i lavoratori migranti sfruttati. In settori come quello agricolo, quello della logistica, ma anche in parte del lavoro domestico, il numero dei lavoratori titolari di protezione internazionale, umanitaria o richiedenti asilo è cresciuto esponenzialmente, ed è su questo terreno che la connessione tra terra e mare dell’umanitario si presenta come niente affatto scontata. La guerra di Salvini all’umanitario è una guerra che non riguarda solo chi arriva via mare – i cui numeri sono ormai ridotti, mentre nuove rotte, probabilmente più pericolose, si stanno già aprendo – ma investe la gestione delle migrazioni nel suo complesso, ovvero, la gestione di una componente ormai strutturale della società. I migranti sfruttati nelle campagne, del Sud come del Nord, che gli incidenti dell’estate nel foggiano hanno portato alla ribalta della cronaca, sono, in molti casi, quelli arrivati via mare durante gli anni precedenti. È su di loro, così come sulle donne che hanno attraversato il deserto, i lager libici e il Mediterraneo e a cui le Commissioni territoriali hanno riconosciuto solo la protezione umanitaria anche quanto avrebbero avuto diritto a forme di una tutela maggiore (per approfondimenti rimando a un mio recente intervento), così come su molti altri migranti presenti sul territorio, che inciderà, in primis, la stretta governativa, rendendo più complesso o impossibile l’ottenimento o il rinnovo di un permesso di soggiorno.
L’utilizzo dello strumento umanitario non è certo privo di ambiguità. L’espansione che esso ha conosciuto in anni recenti ha teso a sostituire diritti con il mero soddisfacimento di necessità primarie: per confermarlo, basterebbe ricordare le difficoltà del sistema di ricezione o le tendopoli utilizzate per “accogliere” i lavoratori stagionali (Campesi, Dines e Rigo, 2016) . Tuttavia, la proposta del governo non è certo tesa a rovesciare questa retorica; anzi la guerra dichiarata all’umanitario ne incorpora in buona parte la ragione, come dimostra la previsione che esclude i richiedenti asilo dal sistema di Sprar e, nella sostanza, trasforma l’accoglienza straordinaria in regola. A una logica non dissimile, risponde il prolungamento dei termini massimi di detenzione amministrativa, portati da 90 a 180 giorni, la quale, nel periodo iniziale, potrà attuarsi anche nei centri per l’accoglienza straordinaria. Quasi a dar ragione alle critiche che, da sempre, denunciano come nell’umanitario le logiche assistenziali si confondano inevitabilmente con quelle di controllo e repressione.
Sul terreno dell’immigrazione, lo Stato di diritto non ha brillato neppure con i precedenti governi. La compagine attuale ha però compiuto uno scarto in avanti, non solo simbolico, dichiarando guerra a settori della società che, non a caso, sono stati e continuano a essere tra i più innovativi anche sul piano delle istanze e delle rivendicazioni: le donne, i migranti, le nuove generazioni. Queste ultime, avevano visto nella riforma della cittadinanza, con l’allargamento dello ius soli, uno strumento di emancipazione sociale ormai non più procrastinabile; ma anche in quest’ambito la proposta di Salvini mira a restaurare condizioni di accesso alla cittadinanza che la negano come diritto per farne nuovamente una concessione. La guerra all’umanitario non è dunque una guerra che si combatte solo sui confini, ma avrà conseguenze di lunga durata, che non si risolveranno nelle aule dei tribunali. È probabilmente nella connessione tra mare e terra, ovvero in una complessità che non può permettersi di separare il tema delle frontiere da ciò che accade al loro interno, che va ricostituito anche il tessuto capace di contrastarla.
di Enrica Rigo da Il Mulino
Per mare, la guerra è stata condotta attraverso una criminalizzazione senza precedenti dei salvataggi umanitari. Non solo di quelli effettuati dalle Ong, contro cui è stata giocata la retorica populista della sovranità sui propri confini contrapposta all’ingerenza di organizzazioni che, seppur umanitarie, sono per lo più straniere; ma anche di quelli doverosamente condotti dalla Guardia costiera. Una schizofrenia che, al di là dei dibattiti giuridici su quali siano i limiti alla competenza di una o dell’autorità, suona come una chiamata a serrare le fila, rivolta agli stessi apparati dello Stato, tipica dell’autoritarismo.
La guerra di terra, non meno spettacolarizzata, sta trovando formalizzazione in un decreto di cui stanno circolando le bozze in questi giorni (la più recente è del 13 settembre), ma era già iniziata lo scorso luglio con una circolare che, indebitamente (per un commento, Asgi del 6/07/2018), imponeva alle Commissioni territoriali per il riconoscimento del diritto d’asilo di operare una stretta sulla concessione della protezione umanitaria. Anche in questo caso, l’umanitario appare dunque al centro delle attenzioni di Salvini, avvicinando terra e mare in una connessione che vale la pena non dare per scontata.
La relazione introduttiva all’articolato giustifica il ricorso allo strumento del decreto legge come intervento normativo “necessario e urgente” per una riorganizzazione del sistema di protezione internazionale. I dati forniti nella relazione enfatizzano la sproporzione tra il numero di riconoscimenti da parte delle Commissioni territoriali delle forme di protezione disciplinate a livello europeo, status di rifugiato e protezione sussidiaria, e i permessi umanitari che variano tra il 25% e il 28%, percentuale alla quale è necessario aggiungere la quota esito dei giudizi di impugnazione contro il diniego della protezione, che in 1 caso su 4 si concludono con il riconoscimento della protezione umanitaria (e in molti altri casi – è bene ricordarlo – con il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria).
La logica degli uffici legislativi del ministero rovescia, dunque, quelle che sarebbero domande di senso comune: invece di chiedersi come mai, in Italia, i casi in cui è riconosciuta la protezione internazionale siano così al di sotto delle medie di molti Paesi europei (dati Eurostat), e perché i rigetti delle commissioni territoriali costringano i tribunali a farsi carico di un contenzioso così alto, la relazione lascia intendere che il problema da affrontare con “necessità e urgenza” sia l’utilizzo strumentale della domanda di protezione e l’esercizio del diritto di difesa, quest’ultimo già severamente limitato dagli interventi normativi del precedente governo.
La proposta non si spinge, in realtà, a riorganizzare la protezione internazionale, bensì – accanto a interventi, tutti peggiorativi, in tema cittadinanza, trattenimento e sistema di accoglienza – abroga la protezione umanitaria come istituto di carattere generale, i cui presupposti sono indicati dalle norme a oggi vigenti nei “gravi motivi di carattere umanitario” o “derivanti da obblighi costituzionali o internazionali”, la quale sarà sostituita da una serie di permessi tipizzati secondo una casistica prestabilita. L’obiettivo dichiarato nella relazione illustrativa è quello di eliminare la discrezionalità legata a “una definizione legislativa dai confini incerti”: la certezza del diritto è, dunque, brandita contro la ragionevolezza umanitaria del caso concreto!
È bene, tuttavia, ricordare che gli obblighi costituzionali e internazionali a fondamento della protezione umanitaria sono innanzitutto quelli derivanti dall’ articolo 10, comma 3 della Costituzione, e che la protezione umanitaria è stata il terreno su cui la giurisprudenza di merito e di legittimità ha elaborato uno degli esempi più fecondi di diritto vivente, di fatto, dando attuazione attraverso quest’istituto all’asilo costituzionale (per approfondimenti si legga Marco Benvenuti). Non si tratta di giudici che hanno travalicato il proprio ruolo a scapito dell’onnipotenza di un legislatore unto dal sacro crisma della rappresentanza politica, ma del funzionamento delle regole basilari dello Stato di diritto, per cui il potere non è condensato in un unico centro e la rivendicazione giurisdizionale dei diritti rappresenta un via, certo conflittuale, attraverso cui anche chi è escluso dal gioco della democrazia rappresentativa può agire le proprie ragioni. Ancora una volta, la guerra all’umanitario suona dunque anche come un monito a una serrata di fila attorno a un potere gerarchico e autoritario.
Chi si occupa di migrazioni sa bene che, negli ultimi anni, la richiesta di asilo e la protezione umanitaria hanno rappresentato l’unica possibilità di regolarizzarsi, non solo per chi è giunto in Italia durante la cosiddetta crisi dei rifugiati, ma anche per chi, già presente sul territorio, aveva perso la condizione di regolarità in seguito alla crisi economica o per chi vi lavorava privo di permesso di soggiorno. Se la retorica della crisi ha eclissato dal dibattito pubblico le migrazioni per lavoro, ridotte alla dicotomia tra veri e finti rifugiati, non ha certo fatto sparire i lavoratori migranti sfruttati. In settori come quello agricolo, quello della logistica, ma anche in parte del lavoro domestico, il numero dei lavoratori titolari di protezione internazionale, umanitaria o richiedenti asilo è cresciuto esponenzialmente, ed è su questo terreno che la connessione tra terra e mare dell’umanitario si presenta come niente affatto scontata. La guerra di Salvini all’umanitario è una guerra che non riguarda solo chi arriva via mare – i cui numeri sono ormai ridotti, mentre nuove rotte, probabilmente più pericolose, si stanno già aprendo – ma investe la gestione delle migrazioni nel suo complesso, ovvero, la gestione di una componente ormai strutturale della società. I migranti sfruttati nelle campagne, del Sud come del Nord, che gli incidenti dell’estate nel foggiano hanno portato alla ribalta della cronaca, sono, in molti casi, quelli arrivati via mare durante gli anni precedenti. È su di loro, così come sulle donne che hanno attraversato il deserto, i lager libici e il Mediterraneo e a cui le Commissioni territoriali hanno riconosciuto solo la protezione umanitaria anche quanto avrebbero avuto diritto a forme di una tutela maggiore (per approfondimenti rimando a un mio recente intervento), così come su molti altri migranti presenti sul territorio, che inciderà, in primis, la stretta governativa, rendendo più complesso o impossibile l’ottenimento o il rinnovo di un permesso di soggiorno.
L’utilizzo dello strumento umanitario non è certo privo di ambiguità. L’espansione che esso ha conosciuto in anni recenti ha teso a sostituire diritti con il mero soddisfacimento di necessità primarie: per confermarlo, basterebbe ricordare le difficoltà del sistema di ricezione o le tendopoli utilizzate per “accogliere” i lavoratori stagionali (Campesi, Dines e Rigo, 2016) . Tuttavia, la proposta del governo non è certo tesa a rovesciare questa retorica; anzi la guerra dichiarata all’umanitario ne incorpora in buona parte la ragione, come dimostra la previsione che esclude i richiedenti asilo dal sistema di Sprar e, nella sostanza, trasforma l’accoglienza straordinaria in regola. A una logica non dissimile, risponde il prolungamento dei termini massimi di detenzione amministrativa, portati da 90 a 180 giorni, la quale, nel periodo iniziale, potrà attuarsi anche nei centri per l’accoglienza straordinaria. Quasi a dar ragione alle critiche che, da sempre, denunciano come nell’umanitario le logiche assistenziali si confondano inevitabilmente con quelle di controllo e repressione.
Sul terreno dell’immigrazione, lo Stato di diritto non ha brillato neppure con i precedenti governi. La compagine attuale ha però compiuto uno scarto in avanti, non solo simbolico, dichiarando guerra a settori della società che, non a caso, sono stati e continuano a essere tra i più innovativi anche sul piano delle istanze e delle rivendicazioni: le donne, i migranti, le nuove generazioni. Queste ultime, avevano visto nella riforma della cittadinanza, con l’allargamento dello ius soli, uno strumento di emancipazione sociale ormai non più procrastinabile; ma anche in quest’ambito la proposta di Salvini mira a restaurare condizioni di accesso alla cittadinanza che la negano come diritto per farne nuovamente una concessione. La guerra all’umanitario non è dunque una guerra che si combatte solo sui confini, ma avrà conseguenze di lunga durata, che non si risolveranno nelle aule dei tribunali. È probabilmente nella connessione tra mare e terra, ovvero in una complessità che non può permettersi di separare il tema delle frontiere da ciò che accade al loro interno, che va ricostituito anche il tessuto capace di contrastarla.