La sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti sul divieto di licenziamento per orientamento sessuale è un successo per chi crede nei diritti. Che sia arrivata ora, nel pieno delle proteste per l’assassinio di George Floyd la illumina in modo molto particolare. Perché può essere la prova che i diritti “basici” delle persone afroamericane vengono dopo i diritti dei gay oppure, al contrario, che la sentenza della Corte Suprema e la difesa dei diritti umani della minoranza afroamericana viaggiano sulla stessa linea, ma a velocità diverse. Quest’ultima è la tesi del primo Presidente nero, Barack Obama, che commentando la sentenza che vieta le discriminazioni sul lavoro per le persone LGBTQI ha scritto: “i progressi possono essere lenti, a volte occorrono decenni, ma sono sempre possibili”. E’ vero, anche se neppure i suoi 8 anni di presidenza hanno risolto i problemi, come dimostrano i fatti di questi giorni.
L’argomento è scivoloso e si presta a fraintendimenti. Il rischio peggiore è la contrapposizione fra diritti civili e diritti umani, come se facessero parte di due mondi diversi: i primi per la classe media, pasciuta, cittadina; gli altri per i popoli del Sud del mondo o per i poveri delle nazioni occidentali. La conseguenza di questo strampalato ragionamento sarebbe che i gay possono essere solo maschi bianchi di Manhattan o che le grandi disuguaglianze sociali sono state già risolte nelle democrazie liberali. E’ palese che non è così. E le manifestazioni di #BlackLivesMatter lo dimostrano: si ingrossano non solo perché gli afroamericani sono il 13% della popolazione statunitense, ma anche perché molti bianchi (o ispanici, asiatici, caraibici) si riconoscono in quelle richieste: non essere uccisi per strada dalla polizia, non essere confinati nei lavori precari, nei quartieri meno serviti, senza copertura sanitaria. Un programma contemporaneamente di diritti civili e diritti umani, se vogliamo usare questa separazione.
Dopo ogni sconfitta elettorale dei partiti progressisti parte una discussione di questo genere: il tal partito ha perso perché si è occupato degli ultimi e non dei penultimi – in Italia sarebbero i migranti contro le mitiche periferie – salvo poi accorgersi che ultimi e penultimi semplicemente non hanno trovato le risposte nelle proposte di quel partito. All’indomani della sconfitta di Hillary Clinton era stato il politologo Mark Lilla a dare risalto al tema con un editoriale sul New York Times. Prendeva di mira le identity politcs ovvero le rivendicazioni particolari di segmenti della società che chiedevano la fine delle ingiustizie subite: le femministe, i gay, gli afroamericani diventate rivendicazioni del Partito Democratico. Secondo Mark Lilla l’eredità delle lotte degli anni ‘60 senza un collante politico è solo materia da convegni, uno spreco che fa perdere le elezioni, perché esaspera l’identificazione dell’elettore con quella tematica, o, al contrario lo allontana perché non se ne sente parte.
La teoria del politologo statunitense è contestata da diversi colleghi accademici e in ogni caso dovrebbe essere passata al setaccio della realtà. Davvero i diritti delle persone omosessuali, le rivendicazioni delle femministe, le ingiustizie subite dalla comunità afroamericane riguardano solo ed esclusivamente loro e aumentano il disagio della “pancia” delle nazioni? O è piuttosto un’abilità della destra, dei partiti populisti quella di indirizzare contro precisi segmenti di cittadini la rabbia di chi si sente escluso e impoverito? Cominciando a smantellare la retorica della contrapposizione diritti civili vs diritti umani forse cambierà anche la reazione delle persone, che in questo periodo storico stanno vivendo sulla propria pelle il dolore della cancellazione dei diritti di libertà, di uguaglianza, di lavoro dignitoso. Traccheggiare porta solo alla ricerca di un capro espiatorio.
Danilo De Biasio