Pensare. Parlare. Scrivere. Comunicare. In troppe nazioni manca questo diritto fondamentale: la possibilità di esprimersi, di non essere censurati, di non rischiare la vita e la libertà per essere pienamente se stessi, per rivendicare le proprie idee, convinzioni o stili di vita.
Il Festival dei Diritti Umani, nella sua seconda edizione, vuole alzare lo sguardo sulla libertà d’espressione, sapendo che è problema difficile, spinoso, in continua evoluzione, come dimostrano le chiusure di giornali e le incarcerazioni di giornalisti, le imposizioni ad artisti e le abiure chieste agli scrittori, i limiti invocati per il web e i social network.
La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo sembra scritta oggi, non settant’anni fa. L’articolo 19 recita: “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.
La libertà d’espressione riguarda dunque tutti gli individui, non fa distinzioni tra uomini e donne, tra chi è cittadino e chi non ha ancora i documenti per esserlo. La libertà d’espressione non ha frontiere, soprattutto nel mondo attuale, dove tutto sembra stare nel piccolo schermo di un computer o di uno smartphone. La libertà d’espressione è fatta di parole e azioni, di inchiostro
e bombolette spray, di ricerca artistica e comportamenti individuali. Si può negare la libertà di espressione chiudendo giornali, radio, tv, siti internet; o addirittura uccidendo, come succede nei regimi dispotici, che siano essi secolari o teocratici. Nelle democrazie ci sono formule più subdole: quando, ad esempio, gli esponenti politici storpiano i nomi di uomini e cose, quando canalizzano l’odio utilizzando anche una torsione retorica del linguaggio. L’obiettivo è raggiunto: non ci sono più persone ma “clandestini”, non ci sono più fenomeni ma “emergenze”, non ci sono più opinioni diverse ma “nemici”. C’è poi chi vorrebbe alzare nuovi muri per bloccare, in questo caso, non le persone ma la comunicazione. Post-verità – scelto come vocabolo simbolo
del 2016 – non significa falsità: spiega che per arrivare a decisioni consapevoli è diventato irrilevante distinguere il vero dal falso. È un fenomeno che decifra la vittoria del “leave” nel referendum sulla Brexit e l’elezione di Donald Trump. Ma non è un fenomeno recente: ogni volta che un giornale pubblica un “retroscena” smentito il giorno dopo senza alcuna autocritica;
ogni volta che un politico usa una mezza verità per guadagnare voti senza capirne la pericolosità; ogni volta che ciascuno di noi usa uno stereotipo senza domandarsi se è giusto stiamo usando la post-verità, diventando contemporaneamente sue vittime e complici. Individuare questi meccanismi, capire chi alimenta l’hate-speech, comprendere gli effetti e stabilire
come sanzionarli senza intaccare la libertà d’espressione è quindi materia di stringente attualità.
Ci sono violenze evidenti e altre velate per negare la libertà d’espressione.
A seconda dell’età c’è chi rimane più sconvolto dalla satira punita con il sangue perché considerata blasfema e chi, perché più giovane, si sente coinvolto nei divieti per la street art. Il compito che il Festival dei Diritti Umani si propone è quello di ricomporre questa complessità di ragionamenti, di far dialogare culture e generazioni diverse per riaffermare con forza il diritto ad
esprimersi liberamente.
Danilo De Biasio
Direttore del Festival dei Diritti Umani
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