di Danilo De Biasio
Direttore del Festival dei Diritti Umani
Provate a cambiare i nomi dei protagonisti del massacro di Gaza. Al posto dei soldati israeliani mettete – chessò – i soldati britannici e al posto dei civili palestinesi i civili nord-irlandesi, o, se preferite azeri e armeni: con 60 uccisi solo da una parte le giustificazioni a favore dell’aggressore non sarebbero state così smaccate come quelle che oggi in molti scrivono a favore di Israele.
Quando c’è una tale sproporzione di forze (e di vittime) ogni simpatia dovrebbe fermarsi e dovrebbe prevalere il senso di realtà: il 14 maggio 2018 rimarrà alla storia come un massacro di innocenti al confine tra Israele e Gaza.
I numeri sono importanti. Un numero così elevato di persone uccise da un esercito di una nazione confinante non si può che definire massacro, altro che autodifesa. E anche nel caso – come spiegano le autorità israeliane – che 24 dei 60 uccisi fossero militanti di Hamas resta un’enormità. Anzi: se il miglior esercito del mondo sbaglia mira in 36 casi su 60 delle due l’una: o il Tsahal non è più il miglior esercito del mondo o hanno deciso di sparare nel mucchio sapendo che avrebbero ucciso decine di persone disarmate.
Anche il contesto è importante. Hamas campa sull’estremismo. L’OLP è sostanzialmente irrilevante. L’Iran soffia sul fuoco e cerca di conquistare credibilità tra i palestinesi proprio perché il suo nemico storico, la petromonarchia saudita, ha deciso di abbandonare quella causa. Tutto vero ma questo non giustifica certo l’aggressione su una popolazione disperata e inerme. Il contesto prevede inoltre che Israele sia governato da estremisti che traggono il loro potere dalla coltivazione dell’odio. E che questo razzismo antiarabo sia aizzato anche dal nuovo Presidente degli Stati Uniti. Il risultato è un mondo sempre più insicuro e proprio per questo motivo bisognoso di coraggiose iniziative a favore della pace e del rispetto dei diritti umani.
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