MONA ELTAHAWY: IN M.O. C’È BISOGNO DI UNA RIVOLUZIONE SESSUALE

Da Reset-Dialogues on Civilizations
«Alle ragazze del Medio Oriente e del Nord Africa: siate impudenti, ribelli, e disobbedite, consapevoli di meritare la libertà». È con questa dedica che si apre il libro “Perché ci odiano” (Einaudi 2015) di Mona Eltahawy, giornalista egiziano-americana, scrittrice, femminista e militante dei diritti delle donne, che racconta in una intensa alternanza di cronaca e vicende personali la disuguaglianza di genere e le violenze di cui le donne sono vittime e sopravvissute (quando lo sono) nel mondo arabo e islamico, in Medio Oriente e nel Nord Africa. Molestie e violenze sessuali fuori e dentro casa – di Stato e di famiglia: il patriarcato colpisce nelle strade e nelle stanze private – “test di verginità” imposti alle attiviste, oppressione e violenze fisiche, molestie e violenze sessuali diffuse nei luoghi pubblici e violenza domestica nelle case; una misoginia frutto di cultura, religione, politica e tradizione. L’orrore delle mutilazioni genitali femminili e dei “matrimoni precoci” che significano sfruttamento delle bambine, discriminazione e colpevolizzazione delle donne: non c’è pagina del libro che non racconti una violazione dei diritti femminili e, al tempo stesso, non sia da stimolo per una rivoluzione che parta dalla voce e dall’esperienza delle donne che nel mondo arabo-islamico hanno deciso di combattere la loro battaglia pubblica e privata per affermare i propri diritti. Nato da un articolo intitolato appunto “Perché ci odiano?” («Noi donne arabe – scrive l’autrice – viviamo in una cultura che ci è fondamentalmente ostile, imposta dal disprezzo maschile») il senso del volume è reso ancor meglio dal titolo originale: “Headscarves and Hymens. Why the Middle East Needs a Sexual Revolution” (Il velo e l’imene: perché il Medio Oriente ha bisogno di una rivoluzione sessuale) che riunisce i diversi aspetti in cui la libertà delle donne non si può esprimere: che sia la scelta di indossare un velo – l’autrice l’ha indossato e poi lo ha abbandonato, e questa scelta è estremamente difficile da fare nei paesi che finiscono per identificare la donna col suo hijab – e la gestione del proprio corpo, che è dello Stato, della famiglia, ma mai proprio – «L’imene non è nostro; appartiene alla nostra famiglia».
L’autrice snocciola dunque dati internazionali, ripercorre cronache violente di ogni tipo, da sofferte vicende personali – è stata vittima di aggressione sessuale da parte delle forze di polizia in Egitto nel 2011, è stata picchiata, le hanno rotto le braccia e l’hanno tenuta in stato di fermo – a testimonianze di femministe arabo-islamiche che rivendicano la parità di diritti, per raccontare quanto sia difficile la vita delle donne e quanto ci sia ancora da fare in tutti gli Stati, dall’Arabia Saudita alla Tunisia, dal Libano allo Yemen, dal Marocco alla Libia e all’Egitto. Sia nei paesi che vengono ritenuti più avanti nella legislazione – e che comunque si basano su una legislazione patriarcale e discriminatoria, analizzata dalla scrittrice – sia in quelli in cui la promessa della primavera araba si è di fatto infranta. «Nonostante le «rivoluzioni», le donne sono ancora ben nascoste e ancorate alla casa, impossibilitate a prendere l’auto e a spostarsi liberamente, costrette a chiedere il permesso agli uomini se vogliono viaggiare e la benedizione al maschio che fa loro da guardiano se vogliono sposarsi o divorziare».
La denuncia che ricorre in tutte le pagine è quella contro un «cocktail velenoso» che viola le donne e i loro diritti. «Accuso il cocktail velenoso di cultura e religione – scrive Eltahawy – Che le nostre politiche siano permeate di religione o di militarismo, il denominatore comune è l’oppressione delle donne». Il filo comune che lega ogni denuncia di ogni singola violenza e ogni possibilità di costruire politiche diverse è il fatto che le donne – Mona Eltahawy lo racconta bene, perché lo sta facendo sulla sua pelle – devono fare due rivoluzioni: una contro i regimi dispotici e tirannici, contro i religiosi ultraconservatori e contro le violenze di Stato, e l’altra contro la misoginia imperante nella società e nella casa. Una rivoluzione pubblica e una che riguarda la dimensione privata. Serve una doppia lotta sul piano politico e su quello familiare. Perché le donne «hanno sempre dovuto fare due rivoluzioni: una insieme agli uomini, contro i regimi che schiacciano tutti, e una contro la misoginia che pervade la regione». La doppia rivoluzione che le donne devono portare avanti, quella che stanno facendo tante femministe arabe e islamiche che rivendicano i loro diritti nelle piazze e in famiglia, davanti all’ostilità di regimi e familiari, è chiaramente espressa dalla scrittrice che mette nero su bianco il suo, di privato, i tormenti, la lotta e il percorso di vita che ha affrontato, le molestie, le aggressioni, i condizionamenti della cultura di origine e la liberazione faticosa da quei retaggi anche psicologici.
Detto tutto questo, non ci può essere spazio per alcuna strumentalizzazione delle parole della scrittrice né da parte di certe destre occidentali, né da parte dei più relativisti. Le denunce della giornalista la mettono infatti in netta contrapposizione sia nei confronti di qualunque integralismo religioso e politico – perché quelli contro le donne sono crimini – sia nei confronti degli occidentali che “cedono” in nome del rispetto delle altrui culture. Sostiene Mona Eltahawy: «Quando scrivo o parlo in pubblico della diseguaglianza di genere in Medio Oriente e in Nord Africa, mi rendo conto di camminare in un campo minato. Da un lato c’è la destra occidentale, bigotta e razzista, che non vede l’ora di sentir criticare quella regione e l’Islam, in modo da aggiungere frecce all’arco teso contro di noi. Vorrei ricordare a questi conservatori che nessun Paese è libero dalla misoginia, e che i loro sforzi di fare marcia indietro sui diritti riproduttivi così faticosamente guadagnati dalle donne li rendono fratelli d’odio dei nostri islamisti. Dall’altro lato ci sono quei liberali occidentali che giustamente condannano l’imperialismo, e ciò nonostante sono ciechi di fronte all’imperialismo culturale che esercitano quando zittiscono le critiche alla misoginia». E prosegue: «Quando gli occidentali restano in silenzio in nome del «rispetto» delle culture straniere, dimostrano di appoggiare solo gli elementi più conservatori di quelle culture. Il relativismo culturale mi è nemico tanto quanto l’oppressione che combatto all’interno della mia cultura e della mia fede».
Di fronte a tutto questo, e al fatto che le violazioni dei diritti e le violenze di ogni tipo sono crimini contro le donne, il messaggio che scaturisce dalle parole di Eltahawy non è affatto privo di speranza. La speranza è nella lotta di tutte le donne che si battono contro le loro culture e contro le loro comunità e che riescono a condividere la loro azione e le loro parole in pubblico. Perché, scrive Mona Eltahawy, «la cosa più sovversiva che una donna possa fare è parlare della propria vita come se avesse una grande importanza. Ce l’ha».