Parole e silenzi. Libertà e limiti

L’editoriale del Direttore del Festival dei Diritti Umani
Danilo De Biasio
Avevamo due possibilità: parafrasare Caparezza quando dice che “il secondo festival è sempre il più difficile”, oppure citare la frase di Jean Paul Sartre sul rapporto tra parole e silenzi. La scelta è caduta sul filosofo francese. “Ogni parola ha conseguenze. Ogni silenzio anche”. Per discutere della libertà d’espressione, il tema della seconda edizione del Festival dei Diritti Umani, quell’aforisma di Sartre ci sembrava il più adatto. Perché il significato di un silenzio è importante tanto quanto la forza della parola.
Il silenzio può essere imposto dalla censura o autoimposto dai condizionamenti culturali; può essere una scelta, per non indispettire il potente di turno, o perché solo così ci si salva la vita. Così come la parola può essere sinonimo di libertà ma anche arma di offesa, di denigrazione, può diventare menzogna. Quando il Comitato scientifico del Festival dei Diritti Umani (Marina Calloni, Alessandra Facchi, Marcello Flores) ha proposto questo tema, la post-verità non era ancora stata scelta come parola simbolo dell’anno, Trump era un eccentrico miliardario con poche possibilità di vittoria e il governo tedesco non aveva in progetto di multare fino a 50 milioni di euro i colossi digitali che non intervenivano contro l’hate speech. Quando, mesi fa, il Comitato scientifico avanzava la proposta di scegliere il tema della libertà d’espressione pensavamo alla censura in Egitto, Russia, Turchia; ai giornalisti silenziati in Cina, Venezuela e Italia, a quelli uccisi in Messico. E una folta rappresentanza di loro ci sarà. Strada facendo ci siamo resi conto che però quella era solo una parte del problema, che era molto più articolato e sorprendente. Per esempio la libertà di espressione nell’arte: chi la condiziona maggiormente, la censura di stato o la forza dei mercanti? Lo abbiamo chiesto all’artista forse più pop del momento: Ai Weiwei.
Incontrando studenti e professori – che sono tra i nostri referenti principali – abbiamo scoperto un originale punto di vista per interpretare la libertà d’espressione. Che è strettamente legato al bullismo e alla sua versione cyber: chi usa i social per insultare abusa della libertà d’espressione; e, specularmente, a chi ne è vittima viene negato il diritto di esprimere pienamente se stesso, per esempio il suo orientamento sessuale.
Ma non è finita qui: nell’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (quanto è moderna!) possiamo leggere che “ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. Quindi ogni individuo ha questo diritto, senza badare al sesso, età, religione, nazionalità e al possesso di documenti. Emerge la grande questione della im/possibilità dei migranti di raccontarsi e non di essere raccontati, di potersi esprimere senza essere catalogati con gli stereotipi. Un tema, anche questo, sempre più urgente che affronteremo nei 6 giorni del Festival.
Lottare per la libertà d’espressione non è quindi solo combattere la censura, ma anche comprenderne le mille forme che può prendere, a volte intrecciate e conflittuali. Non sempre ci sono confini netti, a volte sono arbitrari, porosi. Dove finisce la libertà di esprimere una critica pungente e dove comincia l’offesa? E chi ha il potere di stabilirlo? La post-verità non è una bugia, ma un concetto che rimodernizza il populismo: significa rendere verosimile una menzogna, soddisfare il desiderio tranquillizzante di veder riconosciute le proprie convinzioni, costruire universi paralleli che giustifichino scelte politiche estreme. Ed è una delle urgenze di questo periodo storico. Una drammaticità che è stata magistralmente interpretata, ancora una volta, dallo Studio Cerri, che ha scelto come immagine simbolo dell’edizione 2017 del Festival dei Diritti Umani una elaborazione della frase di Jean Paul Sartre. “Ogni parola ha conseguenze. Ogni silenzio anche” non è un bianco/nero netto, ma sfuma in una gradazione di grigi; la sfocatura costringe a domandarsi se è sbagliata l’origine dell’immagine o il nostro punto di vista; quel carattere così impreciso non impedisce di capire il senso della frase ma ne rende la decrittazione più difficile. Che è proprio la traduzione grafica dell’analisi che vogliamo proporre dal 2 al 7 maggio alla Triennale di Milano.
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Ogni week end le famiglie divise dal confine tra Usa e Messico si vedono attraverso il muro a Friendship Park. Tijuana, Mexico
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