A dodici mesi dalla sua firma, perché la legittimità del Trattato EU-Turchia è in discussione
di Lorenzo Bagnoli, Q Code Mag
Nel tendone allestito a sala stampa, c’è una tv che ronza dichiarazioni. Nessuno porge la minima attenzione. Ci si alza sull’attenti solo all’arrivo del primo sherpa, il funzionario che cammina su e giù per le stanze del potere, portando notizie riservate sulle trattative last minute. Qualunque sia la nazionalità. I più chiacchieroni sono gli spagnoli: il sangue latino non mente, nemmeno se scorre nelle vene di un severo euroburocrate. L’ultimo giorno, quando il grosso ormai è trapelato, si percepisce però una strana ritrosia anche in loro nel parlare con i reporter.
Come se ci fosse qualcosa ancora di non detto. Qualcosa di importante, tanto da lasciare in secondo piano tutto il resto.
Quel novembre 2015, a Malta ci si aspettava che il summit sull’immigrazione avrebbe prodotto una serie di accordi bilaterali tra la Commissione europea e i Paesi africani a più forte pressione migratoria. Poi, poco prima che il circo diplomatico smobilitasse, l’annuncio: il presidente Donald Tusk promette un accordo con la Turchia per fermare i profughi che all’epoca partivano a migliaia, giorno dopo giorno, diretti alle isole di Chios, Lesbo e Samos. Il pacchetto finanziario per convincere la sola Turchia sarebbe stato di 3 miliardi (rinnovabili) per il solo biennio 2016-2017, contro gli 1,8 promessi per 10 Paesi africani. Un’ammissione, in fondo, che tutto quanto era accaduto fino a quel giorno al vertice de La Valletta con i diplomatici africani era stato un enorme diversivo. Dietro le quinte, le trattative vere erano con i turchi. Con buona pace del continente perennemente ultimo.
Ciò che allora tormentava i politici di Bruxelles era la rotta balcanica, quell’arteria aperta che portava le conseguenze della guerra in Siria – migliaia e migliaia di profughi – fino al cuore dell’Europa. Fino alla Germania, il Paese dove la maggior parte di loro cercava asilo.
L’accordo sui migranti tra Europa e Turchia compie il 20 marzo un anno dalla sua entrata in vigore. Un anno che ha sì visto ridursi il numero dei migranti che dalla Turchia hanno raggiunto le coste delle isole greche, ma che, al contempo, ha visto raggiungere il record nel numero dei morti in mare, che ha visto le relazioni diplomatiche al di là del Bosforo complicarsi ogni giorno di più, che ha visto il sistema di accoglienza greco implodere a ripetizione, che ha visto ogni fantasma di solidarietà tra Paesi membri dell’Unione smettere di aggirarsi per l’Europa.
L’accordo, così com’è stato scritto, prevede tre passaggi. Il primo è il rientro in Turchia di tutti i migranti che cercano di raggiungere le sponde elleniche dagli oltre 3.500 chilometri di costa turca. Il secondo prevede che, per ogni profugo preso in Turchia, l’Unione Europea ricollochi in uno dei Paesi membri un profugo che proviene dalle strutture turche. Il terzo è il più politico: per essere più persuasiva, Bruxelles paga la Turchia con 3 miliardi di euro e accelera il processo per liberalizzare i visti d’ingresso per i cittadini turchi. L’accesso visa-free, però, non è mai arrivato. Ed Erdogan ha avuto gioco facile nel lamentarsi con l’Europa.
Se è vero che in Grecia nel 2016 sono arrivate quasi 603mila persone in meno (810mila nel 2015 contro 180mila nel 2016), è altrettanto vero che per le oltre 60mila che si trovano in Grecia, chiedere asilo è impossibile.
Le strutture sulle isole, da cui non è praticamente più possibile muoversi, prevedono meno di 9mila posti. Al contrario, avrebbero bisogno di assistenza circa 16mila persone.
Le file di profughi in coda per un rancio di cibo, persi nell’inverno di Belgrado, senza più una speranza, hanno già sgretolato la convinzione che un flusso umano potesse “essere chiuso”, così come si fa con un rubinetto. Gli uomini che percorrono la rotta balcanica sono ancora là. Solo che non possono superare i confini dell’UE.
Altrettanto vale per chi cerca di lasciare la Turchia. La stessa Commissione europea registra nel quinto rapporto sull’andamento dell’accordo che “nonostante il proseguimento dell’operazione “Safe Med” da parte della Turchia, sette imbarcazioni che trasportavano complessivamente 580 migranti hanno raggiunto l’Italia dalla Turchia, mentre tre imbarcazioni sono giunte a Cipro con a bordo 123 migranti, quasi tutti siriani”. Nei rapporti precedenti, venivano indicate altre 25 imbarcazioni circa, per un totale di circa 2mila persone intercettate a largo di Creta dirette in Italia.
Chiusa una rotta, se ne inventa un’altra. Non solo. L’accordo, sul piano giuridico, lascia interdette le stesse istituzioni europee.
Il primo marzo, ricorda la ong Access Info Europe, la Corte di giustizia europea ha definito l’accordo con Ankara “pericolosamente ambiguo”. Primo, perché tutte le comunicazioni ufficiali sono limitate ad un misero comunicato stampa. Secondo perché ad oggi non c’è alcuna istituzione che sia responsabile per quanto sta provocando o provocherà.
È la Commissione? È qualche Dipartimento specifico? Quale Commissario? C’è solo buio. Che cosa prevede poi l’accordo? È una dichiarazione congiunta, un trattato internazionale? Sempre più buio.
Non è nemmeno chiaro chi abbia voluto questo accordo. Chi lo abbia firmato e a nome di chi. L’agenda degli incontri del 17 e 18 marzo, scrive sempre la Corte di giustizia europea, prevedeva incontri con capi di Stato e di Governo. Nessuno dei quali avrebbe agito in quanto rappresentante della Commissione europea.
Questa confusione rende difficile anche fare ricorso nei confronti dei provvedimenti di reintegro in Turchia dalla Grecia, 1.487 in tutto, al momento. Per ognuno di questi andrebbe valutata la legittimità o meno del provvedimento, dato che esistono condizioni speciali in cui l’allontanamento dalla Grecia non può avvenire.
Ma di nuovo: chi controlla? A nome di chi? La Commissione europea, quando è stata chiamata in giudizio, ha scaricato il barile, dicendo di non essere responsabile ultima dell’accordo.
Al di là delle formule legali, poi, c’è il problema del ricollocamento dalla Turchia all’Europa. Su 28 Stati membri, solo 13 stanno partecipando ai programmi di relocation. Su 3.919 persone ricollocate, 1.406 sono andate in Germania. La Commissione europea non ha alcuna autorità per imporre quanto previsto dall’accordo sui Paesi membri. Berlino asseconda Bruxelles solo perché la prima spinta per cominciare le trattative in materia di migranti è partita proprio dalla Germania.
I preparativi per legittimare questo patto scellerato, per altro, sono cominciati con largo anticipo. E rilette ad oltre un anno di distanza risuonano con il loro vero significato. A settembre 2015 il primo ministro turco Ahmet Davotoglu scriveva che Ankara attendeva 7 milioni di siriani. Oggi non arrivano a tre. Ma serviva una giustificazione dell’emergenza, un allarme che scuotesse le coscienze. Salvo poi usare l’accordo solo come strumento di politica interna: Recep Tayyip Erdogan si mostra forte con l’Europa solo nella speranza di racimolare voti per il suo referendum costituzionale, in agenda ad aprile.
Per approfondire
L’analisi del Migration Policy Center
I rapporti delle ong:
Amnesty International
MSF
Human Rights Watch
Save the children