di Azzurra Meringolo
Entreranno nello stadio Maracanà prima del Brasile padrone di casa, nella cerimonia che il prossimo 5 agosto segnerà l’inizio dell’Olimpiade di Rio. Dieci atleti, due provenienti dalla Siria, due dalla Repubblica Democratica del Congo, cinque dal Sud Sudan e uno dall’Etiopia. Sono tutti fuggiti da violenze e persecuzioni nei loro paesi e hanno cercato, e poi trovato, rifugio in luoghi come il Belgio, la Germania, il Lussemburgo, il Kenya e il Brasile. Saranno in concorrenza sotto la bandiera olimpica, in piedi per l’inno e indosseranno uniformi olimpiche per tutta la durata dei Giochi.
I due siriani – Rami Anis e Yusra Mardini- si danno al nuoto; i congolesi – Yolande Bukasa Mabika e Popole Misenga – al judo. A chiudere la squadra un gruppetto che ha nel cuore e nelle gambe la pista d’atletica: l’etiope Yonas Kinde e cinque sud sudanesi: Paulo Amotun Lokoro, Yiech Pur Biel, James Nyang Chiengjiek, Anjelina Nadai Lohalith e Rose Nathike Lokonyen. Oltre a tempi e prestazioni sportive degne di note, a portarli a Rio è la storia che hanno vissuto, la violenza che si sono lasciati alle spalle e la nuova vita iniziata in Paesi terzi.
La nuotata di Yusra Mardini verso Rio è cominciata lo scorso agosto, quando si è tuffata dal barcone che stava affondando nelle acque del Mare Egeo con 20 migranti a bordo, e per tre ore lo ha trascinato fino a mettere tutti in salvo sulle coste dell’isola di Lesbo. L’incontro tra Yolande Mabika e il judo è invece iniziato in un centro per bambini senza tetto a Kishasa. La judoka non ricorda neanche come c’è arrivata. Era molto piccola e l’unico dettaglio che ha fisso nella sua memoria è il suo scatto finale per saltare su un aeroplano che l’ha allontanata dalla terra dove viveva immersa nella violenza. E da qui inizia a praticare judo, prima di salire su un nuovo aereo che la porta in Brasile, dove quanto iniziato per gioco diventa quasi un lavoro. Dell’etiope Yonas Kinde, oltre alla storia della fuga dall’Etiopa che racconta con tristezza e di controvoglia, colpisce il tempo nel quale ha chiuso una maratona tedesca lo scorso ottobre: 2h e 16 minuti. Una prestazione che lo ha messo sotto i riflettori, facendogli credere in quel sogno olimpico che è diventato realtà grazie al raddoppio degli allenamenti, sulla pista di Lussemburgo, a discapito delle pause dal lavoro di tassista e dalle lezioni di francese.
Queste sono solo alcune delle storie di questi dieci atleti, selezionati fra 43 candidati per gareggiare a Rio e mandare un messaggio al mondo, a quanti li sentono vicini perché anch’essi in fuga e a quanti li hanno fisicamente vicini perché loro nuovi vicini di casa. “Questi rifugiati non hanno casa, non hanno una squadra né una bandiera o un inno” ha detto il presidente del Comitato Olimpico Thomas Bach. “Noi offriremo loro una casa nel villaggio olimpico, insieme a tutti gli altri atleti del mondo. Questo sarà un segnale di speranza per tutti i rifugiati del mondo, e farà capire ancora meglio al pianeta la portata enorme delle crisi dei rifugiati.” Una crisi globale da numeri record e in continuo aumento. Il numero di persone costrette ad abbandonare la propria casa a causa di conflitti e persecuzioni è senza precedenti. Anche a causa della guerra civile in Siria, nel 2014 la popolazione mondiale di rifugiati, sfollati e richiedenti asilo ha raggiunto un record di 59,5 milioni. E da allora il numero è in continuo aumento.
La partecipazione della squadra dei rifugiati alle Olimpiadi rappresenta inoltre una pietra miliare della collaborazione di lunga data tra l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) e il Comitato Olimpico. Questo rapporto, che dura da 20 anni, è stato determinante nel promuovere il ruolo dello sport nello sviluppo e nel benessere dei rifugiati, in particolare dei bambini, in tutto il mondo. Attraverso progetti congiunti, sono stati promossi programmi giovanili e attività sportive in almeno 20 paesi, riabilitando campi sportivi in diversi campi rifugiati, e fornendo kit sportivi per giovani rifugiati. Ecco perché l’Unhcr ha accolto con grande gioia ed entusiasmo l’annuncio, descrivendo la creazione di questa squadra un evento senza precedenti e in grado di mandare un segnale di sostegno e di speranza a i rifugiati in tutto il mondo in un momento. “Siamo molto ispirati dalla squadra olimpica di atleti rifugiati – avendo dovuto interrompere la loro carriera sportiva, questi atleti rifugiati di alto livello avranno finalmente la possibilità di perseguire i loro sogni”, ha dichiarato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati Filippo Grandi. “La loro partecipazione alle Olimpiadi è un omaggio al coraggio e la perseveranza di tutti i rifugiati nel superare le avversità e costruire un futuro migliore per se stessi e le loro famiglie.”