Agosto 2014. Le milizie di Daesh sembravano imbattibili. Avevano sbaragliato i peshmerga curdi e avevano occupato la regione strategica dello Sinjar. Erano interessati al petrolio curdo e a rafforzare l’asse tra Raqqa, in Siria, e Mosul, in Iraq. Ma c’era un ostacolo: in quelle aree montuose era concentrata la minoranza religiosa degli yazidi. Come in tutti i genocidi, i seguaci di Al-Baghdadi avevano cercato di uccidere tutti i maschi in età di combattimento e di utilizzare bambini, ragazze e donne come schiave. Ci sono quasi riusciti. Poche le sopravvissute, che hanno deciso di trasformare le torture patite in un atto d’accusa; una pervicace azione di lobbying che deve costare a ciascuna di loro una sofferenza psicologica indicibile, che traspare dalle loro facce, dai tic nervosi che non riescono a nascondere.
Adesso, quattro anni dopo, tutto sembra cambiato: Daesh è in rotta, ma la vita non può riprendere normalmente nei villaggi yazidi dello Sinjar. Le grandi istituzioni internazionali hanno pianto le loro lacrime, hanno firmato impegni solenni, hanno giurato che non accadrà più, ma l’effetto di un genocidio – anche se non totalmente compiuto – impedirà il ritorno ad una vita normale chissà per quanto tempo.
Il Festival dei Diritti Umani è nato, in qualche modo, rendendo omaggio a questi uomini e donne, invitando per la sua prima edizione Nadia Murad, diventata poi “Premio Sakharov” e protagonista del film On her shoulders (titolo davvero azzeccato). Non solo perché nel nostro mandato c’è proprio il contrasto all’oblio e alla violazione dei diritti umani, ma anche perché sulle spalle di quella ragazza yazida pesa tutta quell’immensità di dolore.
Scrive Simone Zoppellaro, giornalista e autore di Il genocidio degli yazidi, che “ci si scopre piccoli e inadeguati, di fronte a un evento così grande e al dolore di queste vittime. Tragedie che possiamo solo immaginare senza mai del tutto comprenderle. Ci si fanno domande, e capita a volte di sentirsi fuori luogo di fronte a un dramma troppo recente, e a queste vittime che non hanno avuto ancora modo di elaborare lutti e violenze. Ma, insieme a questo nasce anche l’impulso per «una sfida all’indifferenza», la necessità di darsi da fare per rompere il muro dell’oblio e richiamare l’attenzione nei confronti di questo dramma del nostro tempo”.
E proprio dal libro di Simone Zoppellaro vi proponiamo un capitolo, che forse ci permette di identificarci per qualche istante in questo grande dramma quasi dimenticato.
foto di Leonardo Brogioni
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