La fotografia ha il pregio di cristallizzare un momento. E quando il fotografo – in questo caso la fotografa – è brava (e fortunata) quell’immagine racconta molto più delle parole. E’ successo a Cecilia Fabiano per l’agenzia LaPresse. Ma tutte le foto, anche le migliori, hanno il difetto di non spiegare cosa è accaduto un secondo prima e cosa accadrà dopo. Cosa è successo prima: uno stabile di via Cardinal Capranica a Roma occupato da anni da alcune centinaia di persone è stato sgomberato la notte scorsa dopo una breve resistenza di parte degli occupanti. Cosa è successo dopo: 199 persone di cui 80 bambini sono stati momentaneamente ricollocati in centri di accoglienza.
Ma torniamo a quell’istante fotografato da Cecilia Fabiano. In primo piano un ragazzino che ha salvato alcuni libri, immaginiamo i pochi che ha a disposizione per studiare. Ad un passo da lui c’è una poliziotta: casco con visiera alzata, una ricetrasmittente in mano, i guanti neri e una smorfia indecifrabile: un mix tra dispiacere, stanchezza, disprezzo. O forse, semplicemente, una faccia che dice “che ci faccio qui?”.
Di quell’agente non conosco il nome, la carica, il ruolo nello sgombero, cosa ha fatto prima e come è tornata a casa dopo. Mi piace immaginarla come una madre riflessiva, pensierosa, con qualche domanda in testa. O almeno ci spero.
In questi casi l’esperienza giornalistica serve poco, ma viene in aiuto Fabrizio De André: lui ha già scritto tutto quello che c’è da scrivere. Mi è tornato in mente un suo brano scritto esattamente 50 anni fa in cui immagina un dialogo fra le madri di Gesù e delle due persone crocefisse insieme a lui. In “Tre madri” Maria piange Gesù come “figlio nel sangue, figlio nel cuore”, non come figlio di Dio. Le madri di Tito e Dimaco sottolineano l’uguaglianza dei tre, lasciati agonizzanti sulle croci. L’unica differenza non è cosa hanno fatto nella loro vita, ma cosa succederà dopo la loro morte: “lascia noi piangere un po’ più forte – dice la madre di Dimaco – chi non risorgerà più dalla morte”.
Usciamo dai Vangeli apocrifi e torniamo nel pantano di Primavalle. Immagino che potrebbe nascere un dialogo fra la poliziotta e la madre di quel ragazzino che passa sotto il suo sguardo con i libri in braccio. Mi piacerebbe. Vorrei vederle sedute ad un tavolo, senza quel casco e gli orribili guanti neri a separarle, a raccontarsi di aspettative e speranze dei propri figli, di cosa ascoltano e per chi fanno il tifo allo stadio, di come si rifiutano di rassettare la cameretta. Sarà ingenuo ma è l’unica prospettiva che può abbassare una tensione sociale pericolosissima: riconoscersi in chi ti sta di fronte, mettersi nei panni dell’altro, smetterla di considerare chi vive in condizioni di disagio un nemico. Il Ministro dell’Interno vuole esattamente il contrario. I vertici delle forze di polizia vogliono subire questa escalation – sono loro a trovarsi in prima fila – o vogliono proporre una politica della sicurezza diversa? Potrebbe cominciare a rispondere la poliziotta della fotografia. Sarebbe una boccata d’ossigeno.