DALLA RETE DI IDOMENI

Questa è la storia di un paese contadino, con tanti trattori blu e molti chilometri di filo spinato. A difendere le reti c’è un reparto interforze di diverse nazionalità; macedoni, serbi, ungheresi, croati e sloveni. Sui campi, tagliati dalla ferrovia, al posto degli aratri ci sono centinaia di tende da pochi euro.
da Idomeni, testo e foto di
Cosimo Caridi
@cosimocaridi
 
Questi binari sono stati la guida per centinaia di migliaia di persone che, dalla scorsa primavera, hanno attraversato i Balcani. Poi con l’autunno la Fyrom (ex Repubblica Jugoslava di Macedonia) ha costruito una barriera. Le rotaie sono così diventate l’imbuto dove sono convogliati tutti rifugiati sbarcati sulle isole greche. Di mese in mese le politiche per l’accesso nella Fyrom si sono irrigidite. Non è però Skopje l’unica imputata. La stanza dei bottoni non è nella penisola balcanica, ma in Germania e in Austria. Quando Vienna impone una quota giornaliera agli ingressi nel paese, la decisione scende come una valanga verso la rete di Idomeni.
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Le cose si sono messe male il 23 febbraio. Tutti i leader balcanici sono stati invitati dall’Austria per un vertice regionale. Unico escluso Alexis Tsipras. Risultato: potranno uscire dalla Grecia sono i siriani e gli iracheni. E gli iraniani, gli afgani, i pakistani, tutti gli altri che da mesi hanno lasciato le loro case e attraversato il mediterraneo? Loro sono i primi intrappolati nel paese ellenico e la situazione continua a deteriorarsi. Passano in Fyrom 2/300 persone al giorno, seppur la quota decisa a Vienna sia di 580. Intanto a Idomeni si notano i primi segnali della primavera, che addolcisce le acque mediterranee: il viaggio verso Lesbos è più sicuro, nell’ultima settimana di febbraio arrivano quotidianamente sulle isole greche tra i 1500 e i 2000 profughi. La struttura al confine macedone ha capacità di ospitare poco più di mille rifugiati. In meno di una settimana dal vertice balcanico, a Idomeni arrivano oltre diecimila persone, poche centinaia sono autorizzate a passare. I rifugiati si sistemano in tende. Proteste, lacrimogeni, idranti, ma questa è l’unica parte della storia che già tutti conoscete.
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Il campo non ha cucine, qualche decina di bagni chimici e ancor meno strutture al coperto: solo pochi tendoni delle ong e due gabbiotti per la polizia.

Come in tutte le strutture di accoglienza i gruppi si sistemano su base familiare. Gli yazidi, cristiani iracheni, sono i più vicini alla rete. Vivono il sovraffollamento e il degrado nella sua pienezza. Accanto alle strutture che distribuiscono il cibo, si piazzano i palestinesi siriani, tanti del campo di Yarmuk, alle porte di Damasco. Tra loro i nonni di oggi che da bambini vissero la fuga dalla Palestina, dopo la creazione dello Stato d’Israele. Più lontano ai bordi del campo, a oltre dieci minuti a piedi dal confine, ci sono le tende dei curdi che arrivano al Rojava. In mezzo un caleidoscopio di gruppi, formatisi nei mesi di viaggio o nei campi profughi in Turchia o in Libano. E infine nascosti negli angoli più bui ci sono i marocchini, gli egiziani e tutti gli altri migranti economici. Questi subiscono le condizioni più estreme, solitamente giovani uomini che viaggiano in gruppo. Le ong li guardano con paura e i giornalisti non sono interessati alle loro storie. Tra loro ci sono quelli che, nelle notti di inizio marzo, hanno tentato di scavalcare le recinzioni “la polizia ci ha preso dopo giorni di cammino” racconta Abdul. Le reti macedoni si perdono in un bosco a ovest del campo “ho provato a saltarle diverse volte –continua Abdul, seduto su una coperta che gli fa da letto- e all’ultima ci sono quasi riuscito. Eravamo in quattro, non ci mancava molto per arrivare in Serbia. Qualcuno ci ha visto e ha chiamato la polizia. Ci hanno picchiato, hanno distrutto i nostri cellulari”. Abdul e i suoi compagni sono stati riportati a Idomeni e si sono sistemati in un edificio abbandonato della stazione, al limite sud del campo.
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La concentrazione di profughi assomiglia a quella di Calais, non c’è alcuna organizzazione centrale. L’Unhcr è presente, come tante altre grandi ong. Ma al campo vi può accedere chiunque e fare pressoché tutto quello che vuole.

Quasi tutti i giorni, non quando piove, ci sono i testimoni di Geova che con un volantino in arabo spiegano ai profughi “i piani che Allah ha per loro”. Ma voi non credete in Geova, in Dio, in Gesù Cristo? “Diciamo Allah così che anche loro possano capire”. Certo i problemi di Idomeni sono altri e ben più complessi di un gruppo di predicatori. Le Nazioni Unite non hanno riconosciuto il campo di Idomeni, anzi non lo considerano proprio come tale. “Non possiamo chiamarlo campo profughi –spiega Babar Baloch portavoce dell’Unhcr per Idomeni- non ci sono le strutture per considerarlo un rifugio”. Può sembrare solo una questione di forma, ma la differenza è invece di sostanza. Se l’Onu operasse a Idomeni potrebbero accedervi solo i profughi registrati che quindi non avrebbero poi diritto a far richiesta di asilo in un altro paese. C’è però poi il lato pratico della questione: senza l’Onu, nessuno, nemmeno il governo greco, ha la forza di gestire la situazione. Come per esempio la distribuzione del cibo: niente pasti caldi, ma solo panini morbidi farciti con sottilette e due fettine di ricostituito di tacchino.
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Fino al 7 marzo il caos magmatico di Idomeni era cresciuto nell’attesa di una decisione, di un segno che doveva arrivare da Bruxelles. Un precario equilibrio garantito da migliaia di agricoltori, disoccupati, operai che ogni giorno portano al campo cibo, vestiti, coperte. Pure i ‘malvagi anarchici greci’, quelli che nelle manifestazioni in piazza Syntagma ad Atene si scontrano con la polizia, hanno organizzato una distribuzione alimentare quotidiana. Anzi sono proprio gli anarchici, gli unici ad aver garantito per settimane una zuppa calda tutte le sere. Anche sotto la pioggia battente. Anche la notte di lunedì sette, mentre i leader europei chiudevano gli occhi sul fango che inghiottiva le tende di Idomeni, i NoBorders scodellavano da mangiare per chiunque ne chiedesse.
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L’Eurogruppo, allargato alla Turchia, era iniziato nel pomeriggio. In quelle ore un centinaio di profughi manifestava sulla ferrovia, bloccando il treno merci tra Fyrom e Grecia. La pioggia è iniziata a cadere leggera, una bandiera tedesca è apparsa tra la folla.

“Mamma Merkel, salvaci tu” urlavano. Intanto a Bruxelles i primi ministri, sedendosi a tavola per cena, decidevano di rimandare ogni decisione. Sul confine greco-macedone la pioggia diventava temporale, le tende si inzuppavano.

Nel buio il fango mangiava la poca organizzazione che era stata data nelle due settimane in cui un cancello chiuso ha creato il più grande campo profughi d’Europa. “Si ricomincia daccapo -dice serio Ayman mentre da sotto un ombrello vende sigarette sfuse- non ho più un posto dove tornare in Siria, di qui si può solo andare avanti”.
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Quattro giorni di pioggia e freddo sono riusciti dove eserciti di burocrati hanno fallito. Dei quasi 15mila che aspettavano di passare a Idomeni in centinaia ogni giorno hanno iniziato a lasciare il campo. Alcuni entrano nel programma di ricollocazione, altri scelgono il rimpatrio volontario, ma la maggior parte rimane in un limbo. A oggi sono quasi 40mila i profughi bloccati in Grecia. Tanti sceglieranno di affidarsi ai trafficanti, magari anche alla rete ben collaudata di contrabbandieri albanesi, per poi arrivare sulle coste pugliesi. Speriamo che non ci sia bisogno di nessun altro Aylan (il bambino dalla maglietta rossa, che scosse le coscienze europee la scorsa estate) perché la Comunità Internazionale intervenga. E per fermare chi scappa dal mediorente in fiamme c’è solo una cosa da fare: bloccare la guerra in Siria.