Non so come il due aprile sia diventato il giorno dedicato all’autismo, ma da qualche tempo a questa parte, molte città in tutto il mondo si rivestono di blu per ricordare, anche a chi non ha un contatto quotidiano con una persona autistica, che l’autismo esiste, vive e lotta insieme a noi.
di Marina Viola
Personalmente, non ho bisogno di luci blu, perché da ventitré anni l’autismo me lo becco dalla mattina alla sera, grazie a mio figlio Luca che, per non farsi mancare niente, ha anche una strana forma di sindrome di Down. Per quanto riesca a volte a trovare il lato magico e poetico nella convivenza con mister Shmmo, così lo chiamiamo in casa, non mi sento più in colpa quando affrmo che è anche una vita molto complessa. Mancano, a me e al resto della mia famiglia, i momenti che a tanti sembrano quasi scontati: una vacanza, una serata con gli amici. Manca il ritmo naturale dell’essere genitori, quello che ci fa sperare che quando i figli crescono noi potremmo finalmente ritrovarci, rinnamorarci, andare ai Tropici e sorseggiare una pina colada. Figuriamoci: noi non possiamo neanche immaginare di sorseggiarci una banalissima Coca Cola senza ghiaccio in spiaggia a Cesenatico, sulla sdraio alla sessantaseiesima fila di ombrelloni. A questo punto anche questo sarebbe il massimo della vita. Invece, ci manca quella libertà che prima di mister Shmoo non avevamo neanche mai notato di avere. Manca anche, e forse soprattutto, una serenità per il presente e il futuro. Le persone come mio figlio sono estremamente vulnerabili: se un operatore che lavora al centro frequentato da Shmoo si sveglia di cattivo umore e gli dà uno schiaffo, io non lo saprò mai. Non lo saprò mai se qualcuno lo abusa in qualsiasi modo, fisicamente, verbalmente o psicologicamente. E inoltre: se io e Luca siamo per la strada a fare una passeggiata e lui riesce a liberarsi dalla mia mano che tiene stretta la sua, la probabilità che attraversi la strada correndo nell’istante in cui un TIR, ma anche una Cinquecento, sta passando a quaranta all’ora e lo stende, è alta. Come è alta la possibilità che un giorno impari ad aprire la porta di casa (sempre rigorosamente chiusa a chiave) e scappi. Dice poche cose e incomprensibili alle orecchie di chi non lo conosce, non ha il senso del pericolo. Non sarebbe in grado di tornare a casa.
Ovvio, Shmoo non è solo una fonte di preoccupazione. È soprattutto un essere sovrannaturale, che si sveglia contento, passa la giornata contento e va a letto contento. È estremamente goffo, simpatico e affettuoso. Mi abbraccia sempre e la sua ragione di vita, oltre a James Taylor, sono io. Nessuno mi ha mai fatto sentire tanto amata, tanto desiderata, bella, indispensabile. Luca è la persona più pura e straordinaria che io abbia mai incontrato. Mi ha spiegato, a modo suo, cosa sono le cose importanti della vita: l’affetto, il buon umore, un bicchiere di latte, una cover di Fly Me To The Moon. E ha ragione, soprattutto quando penso che noi passiamo la vita a spaccarci la schiena per avere una buona carriera, per fare sempre più soldi, per permetterci una bella casa, un’ottima posizione sociale. Per lui la vita è adesso, è il momento che vive, l’amore che riesce a dare e a ricevere.
Da anni ho pensato che il due aprile fosse una celebrazione di tutto questo: una giornata dedicata alle persone come lui. Avevo la sensazione che forse, ma quasi sicuramente, le discriminazioni così palesi che da sempre affliggono Shmoo e i suoi colleghi si stessero trasformando in solidarietà, comprensione. Cominciava, in poche parole, a piacermi il blu, aprile con le sue piogge e l’arrivo della primavera.
Poi è arrivato il Coronavirus e il blu è diventato nero, puzzolente, falso, schifoso. Negli Stati Uniti, dove vivo, è arrivata la notizia agghiacciante che in alcuni Stati le persone con disabilità, non solo fisica ma anche intellettiva, non avrebbero ricevuto il privilegio di salvarsi la vita in caso di contagio. Siccome i respiratori scarseggiano e i malati sono tanti, hanno deciso di sacrificare le persone come mister Shmoo per lasciare gli strumenti salva vita a chi è, come si può dire in modo volgare?, normale.
Mi è venuto in mente il sermone del pastore Martin Niemöller, scritto durante l’Olocausto e che speravo di aver potuto mettermi alle spalle, ma che purtroppo continua ad essere di un’attualità agghiacciante. Lo riporto:
«Quando i nazisti presero i comunisti,
io non dissi nulla perché non ero comunista.
Quando rinchiusero i socialdemocratici
io non dissi nulla perché non ero socialdemocratico.
Quando presero i sindacalisti,
io non dissi nulla perché non ero sindacalista.
Poi presero gli ebrei,
e io non dissi nulla perché non ero ebreo.
Poi vennero a prendere me.
E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa»
Si era dimenticato della volta che vennero a prendere i disabili, anche allora decimati. Lo aggiungo io, perché l’aprile del 2020 riesca ad essere meno superficiale e che invece acquisti davvero l’importanza che si merita.
A questo punto il blu del due aprile potrebbe trasformare un silenzio assordante in una celebrazione della vita.
Staremo a vedere.