Il grande fratello egiziano: meno repressione violenta, più controllo della rete

Mentre Trump incontrava a New York il suo “dittatore preferito” – così aveva definito poche settimane prima dell’incontro Abdel Fattah al-Sisi –  in Egitto il giro di vite innescato dalle inattese proteste esplose il 20 settembre ha raggiunto un livello di isteria senza precedenti. Nonostante i numeri contenuti – parliamo al massimo di centinaia di manifestanti – l’improvvisa ricomparsa dell’attivismo nelle strade di alcune città egiziane ha portato sino ad ora all’arresto di circa 3000 persone. Il giro di vite più estremo e più esteso dell’epoca del presidente Abdel Fattah Al-Sisi non ha visto fortunatamente spargimento di sangue. E’ bastato rinchiudere manifestanti pacifici – e potenziali tali – dietro le sbarre. Controllare in modo maniacale i luoghi simbolo della resistenza dell’opposizione e le piazze virtuali dove si osa parlare di quanto sta accadendo. Piazza Tahrir è impenetrabile: chi ha cercato di attraversarla è stato costretto in alcuni casi a fare visionare il proprio cellulare alle forze dell’ordine.

Per capire la capillarità del controllo in corso, basta pensare a quanto accaduto durante la seconda serata di proteste, tenutesi a Suez (storica roccaforte dell’opposizione) quando per seguire il ritorno dei manifestanti in strada è stato necessario fare ricorso all’account di un utente Facebook fino ad allora sconosciuto – Mohammed Sadie – che abitando proprio sulle strade degli scontri, ha iniziato una lunga diretta, interrotta bruscamente dall’annuncio – fatto da lui stesso- del suo imminente arresto.

In un contesto dove  il prezioso lavoro sul campo è sempre più raro e rischioso –anche gli studi di Al-Jazeera sono stati chiusi con la forza dopo il golpe del 2013 –  ancora una volta sono stati i social network i canali dove l’attivismo si è risvegliato e dove quanto successo lungo il Nilo è stato raccontato e commentato, nel silenzio totale dei media ufficiali che all’indomani delle inedite manifestazioni non avevano in pagina neanche un trafiletto su quella sorprendente fiammata; per non parlare delle televisioni che – come successe nel 2011- hanno continuato con il loro palinsesto, optando per il silenzio di cronaca.

Ignorati dai media nazionali e globali, i video postati a partire dal 2 settembre da Mohammed Ali ( l’ex contractor dell’esercito egiziano, auto esiliatosi in Spagna a causa di frizioni con il regime) hanno creato una reazione a catena sui social, dove in tanti hanno sfruttato la scia per denunciare cose che fino a quel momento non avevano avuto il coraggio di raccontare pubblicamente. Il primo ad unirsi al flusso di denunce è stato Mosaad Abu Fagr, un attivista che dalla problematica regione del Sinai ha accusato Al-Sisi di preferire fare accordi con spacciatori piuttosto che con esponenti delle tribù locali, sempre più vittime delle operazioni di messa in sicurezza della regione. Dopo Fagr, a parlare è stato Ahmed Sahran, ex ufficiale ed avvocato che in un video arrivato in fretta a  mezzo milione di visualizzazioni ha confermato le accuse di Ali, chiedendo al contempo il rilascio ai Mohammed Hamdy Younes, avvocato arrestato in Egitto dopo aver annunciato la sua intenzione di chiedere al procuratore generale di indagare sulle accuse lanciate da Ali. Non sono poi mancati i video postati da diversi cittadini incappucciati che definendosi ex ufficiali dell’esercito o dell’intelligence hanno definite accurate le accuse di Ali. Tutto questo mostra non solo la presa che hanno i temi affrontati da Ali sulla popolazione, ma anche la simpatia di cui gode all’interno di alcune fasce dell’esercito, ad esempio tra quelle scontente delle epurazioni e dei cambi ai vertici realizzati da Al-Sisi che ha messo il figlio a capo dei servizio segreti.

Memore di quanto successo 8 anni fa, quando la caduta di Mubarak iniziò da una pagina Facebook, il regime ha messo immediatamente in moto la macchina della censura e delle intimidazioni. Come riportato dalla Commissione per la protezione dei giornalisti, dal 21 settembre è stato sempre più difficile per gli utenti egiziani entrare su Facebook, guardare il portale in arabo della BBC, di Al-Jazeera e di Al-Hurra. Almeno 3 i giornalisti sono stati arrestati nelle 48 ore successive alle prime manifestazioni e sono stati detenuti in luoghi non meglio precisati.

Agli arresti e alla censura sono seguite le intimidazioni. Si pensi ad esempio alla vicenda di Wael Ghonim, protagonista della rivoluzione di piazza Tahrir, fuggito negli Stati Uniti. Dopo aver rotto un silenzio durato più di sei anni, criticando apertamente il regime sui social, Ghonim avrebbe ricevuto una chiamata dal personale dell’ambasciata egiziana negli Stati Uniti che lo invitava ad abbassare il tono della voce. Anche se non è possibile provare la veridicità di questa chiamata, è quantomeno verosimile credere che Ghoneim abbia ricevuto minacce, visto che dopo aver continuato a criticare sui social l’attività del regime, suo fratello Hazem, medico estraneo alla politica, è stato arrestato in Egitto.

Intimidazioni sono arrivate anche ai giornalisti di testate straniere che lavorano all’interno del Paese. Il 21 settembre, il ministero dell’informazione ha inviato loro l’ennesimo un comunicato stampa nel quale  li ha invitati a rispettare una serie di comportamenti, comunicando loro che il governo avrebbe monitorato con attenzione quanto andato in onda o quanto pubblicato a livello globale sugli eventi in corso.

A questa breve e non certa esaustiva carrellata, va aggiunta la campagna di attacchi cibernetici contro gli attivisti portata avanti dal governo dal 2016. Già la scorsa primavera, Amnesty International aveva lanciato l’allarme, colto al volo dalla compagnia di sicurezza cibernetica Check point che proprio in questi giorni ha pubblicato il report della sua inchiesta sul tema. Sarebbero stati 33 i server degli utenti violati e saccheggiati di dati sensibili. Tra questi, quello del professor Hassan Nafaa e del giornalista Khaled Dawoud, arrestati a fine settembre.

Il report – che include nella lista delle vittime alcuni esuli politici – svela infine che il server centrale usato per gli attacchi era registrato a nome del Ministero egiziano per le Comunicazioni e la Tecnologia dell’Informazione. Un pasticcio con tanto di coordinate geografiche fissate in una delle applicazioni usate per tracciare gli attivisti: corrispondono a quelle del quartiere generale della principale agenzia di spionaggio egiziana.

Viola Siepelunga

 

In evidenza un particolare della foto di Mohamed Abd El Ghani/Reuters