Insieme all’Amazzonia muoiono i diritti

E’ arrivato il momento di schierarsi: o stai con l’Amazzonia, “fonte di vita” o stai con chi la stupra giornalmente con la “distruzione estrattivista”. Sono i concetti che si possono leggere nel “Instrumentum laboris” che Papa Francesco ha approntato per il Sinodo dei Vescovi dell’Amazzonia che si terrà dal 6 al 27 ottobre. Un documento che non ha paura di usare parole forti, di indicare i responsabili di una distruzione che non può essere derubricata a questione privata brasiliana. E proprio perché quella foresta permette a tutta la Terra di vivere, nessuno può sentirsi escluso dalla necessità di cambiare stile di vita, per evitare che accada come quest’anno, con la deforestazione che è cresciuta del 300%: da quando è stato eletto il Presidente Bolsonaro sono stati bruciati 1700 km quadrati di Amazzonia, l’equivalente di oltre 200 campi di calcio. Per la nostra soia, per i nostri hamburger, per il nostro parquet.

I popoli indigeni difendono la foresta perché è la loro casa, il loro habitat. Quindi sono i principali ostacoli alle grandi imprese agroalimentari, di legname, di fonti energetiche che vogliono sfruttare per i loro sporchi interessi questo prezioso bene di tutti che sono le foreste. Il 13 settembre 2007, dopo centinaia di anni di spietato saccheggio delle aree indigene in America Latina, Africa, Asia e Oceania, l’Onu ha adottato la Dichiarazione dei Diritti dei Popoli Indigeni. 143 i voti a favore; contrarie e astenute diverse nazioni che avevano e hanno un passato di soprusi da far dimenticare: Australia, Canada, Stati Uniti, Burundi, Colombia, Kenia, Russia…  Ecco la cruda realtà dei fatti: da una parte gli impegni solenni all’autodeterminazione dei popoli indigeni, dall’altra i furti di terreno. E le violenze: 321 difensori dei diritti umani sono stati uccisi nel 2018. Nove in più rispetto all’anno precedente. La maggior parte degli omicidi sono avvenuti in America Latina. In prima linea uomini e donne che difendono il diritto alla terra, all’acqua: il 77% di questa strage sono indigeni che lottavano per quei diritti sanciti dalla Carta dell’Onu. Il Festival dei Diritti Umani ha dedicato proprio a loro una parte dell’edizione 2018. E ci ritorna costantemente, anche in questo anniversario. Lo facciamo pubblicando alcune pagine di un libro appena uscito: “Frontiera Amazzonia”, scritto dalle giornaliste di Avvenire Lucia Capuzzi e Stefania Falasca, edito da Emi. Poche pagine che servono per capire perché la lotta per la vita degli indigeni dev’essere un impegno di ciascuno di noi.

 

 

Sinuoso come un giaguaro, animale a cui deve il suo nome, il Rio Javarí procede per oltre mille chilometri. Ansa dopo ansa, il fiume disegna un dedalo inestricabile d’acqua e foresta. Né conquistadores né avventurieri riuscirono a decifrare la sua mappa enigmatica: fino alla metà dell’Ottocento, il Javarí restò inesplorato. Eppure, il suo bacino era ben noto. Gli intraprendenti portoghesi vi si imbatterono nel perenne intento di ampliare i propri domini a ovest, oltre il limite di Tordesillas.1 I non meno combattivi spagnoli lo trovarono mentre, lasciatisi alle spalle le Ande, inseguivano la via dell’Atlantico. Alla fine, il fiume, tra i principali affluenti del Rio delle Amazzoni, divenne la frontiera naturale tra i due imperi rivali. Ora separa il Perù, a ovest, dal Brasile, a est. È da questo lato che si estende uno degli avvallamenti più inaccessibili d’Amazzonia, la vale do Javarí. Da Tabatinga è necessaria una gincana di tre ore tra barca, auto e attese per approdare ad Atalaia do Norte, la porta d’accesso della valle. Sempre che la pioggia non abbia allagato la strada. In ogni caso, da lì si deve navigare per giorni – almeno tre – sul Javarí, per addentrarsi in quello chegli scoraggiati eserciti iberici ribattezzarono «emporio dei mali». Il mix di insetti, malattie e isolamento era in grado di rendere insopportabile la vita dei nuovi arrivati, i quali, a lungo, dovettero rinunciare a costruire insediamenti stabili. Proprio per questo, le spesse pareti di palma della valle sono diventate casa di 17 popoli nativi in isolamento volontario, la più alta concentrazione del pianeta. La ferocia della colonizzazione (in particolare, la pressione dei signori del caucciù all’inizio del Novecento) ha spinto queste etnie a rintanarsi negli angoli più remoti della foresta e a rifiutare il contatto con il resto della società. Non si tratta di «buoni selvaggi» che inseguono il mito dello stato di natura. Il rigetto scaturisce da esperienze di incontro traumatiche nel corso degli ultimi cinque secoli. Per gli «isolati», la fuga dal mondo esterno è l’unico modo per salvarsi. Accanto a loro, nella valle del Javarí, vivono almeno 6200 indios contattati, tra Marubo, Mayoruna, Matis, Kanamarí, Kulina, Korubo e Tsohom Dyapa. Alcuni sono entrati in relazione con i non autoctoni decenni fa; altri, come i Korubo e Tsohom, l’hanno appena fatto e gran parte delle comunità sono ancora in isolamento. I nativi non sono, però, gli unici abitanti della valle. A differenza dei predecessori in armatura, i contemporanei cacciatori di risorse non si lasciano scoraggiare dalle difficoltà dell’habitat. Le enormi ricchezze naturali della zona (pesci, animali, petrolio, oro, coca) li attraggono come una calamita. Eppure, come prevede la Costituzione, dal 2 maggio 2001 la valle del Javarí è stata ufficialmente restituita agli abitanti ancestrali,2 gli unici a cui ora è concesso di amministrarne le risorse. Con una superficie di 85.000 chilometri quadrati, è la seconda maggior area indigena del Brasile. Un’estensione sufficiente a proteggere il diritto delle etnie isolate al non contatto. Almeno in teoria. La barriera legale, tuttavia, non ferma l’avanzata dei conquistadores attuali. 

La valle contesa

«È stato così difficile ottenere il riconoscimento formale del nostro territorio e ora vogliono di nuovo portarcelo via». Le guance e la fronte di Raúl Dunu sono dipinte di henné scarlatto. Al posto dell’abito tradizionale, però, indossa i boxer e una maglietta su cui spicca una collana di legno. Sulla testa porta la fascia bianca e rossa, simbolo del suo popolo, i Mayoruna. Duemila persone in tutto, divise in undici comunità sparse per la valle. Raúl guida quella di Nova Esperança, a cinque giorni di barca da Atalaia. Le distanze non spaventano il cacique, cioè il leader. «Viaggio spesso: Rio, São Paulo, Iquitos, per denunciare le minacce che incombono sul mio popolo», sottolinea. Il pericolo principale è il petrolio. I Mayoruna si concentrano nell’est della valle, nel primo tratto del Javarí, che ancora si chiama Jaquerana, dove il territorio brasiliano sfiora il Perù. In quest’ultimo paese, a differenza del Brasile, è consentito lo sfruttamento delle risorse del sottosuolo nelle terre indigene. Nel 2007, dunque, l’azienda canadese Pacific Rubiales Energy – come denunciato dal Centro de trabalho indigenista (Cti) – ha ottenuto la concessione del lotto 135, a ridosso della frontiera. E, nel 2013, ha iniziato la prospezione del giacimento. «Sappiamo bene quali conseguenze produca l’estrazione petrolifera. Distruggeranno la selva, i fiumi si tingeranno di nero, la nostra terra sarà avvelenata», dice Raúl. I Mayoruna hanno toccato con mano l’effetto greggio negli anni Settanta e Ottanta, data la presenza nel loro territorio del colosso statale brasiliano Petrobras. L’etnia è stata decimata dalle malattie portate dai nuovi arrivati: «La gente ancora ricorda il terrore per gli uomini che avanzavano con enormi macchinari e tiravano giù gli alberi». Alla fine, nel 1984, l’attività è stata bloccata dopo che due lavoratori di una società satellite di Petrobras erano stati uccisi dai nativi. «Non siamo stati noi ma i Korubo, che all’epoca erano isolati. Se li sono trovati di fronte e non sapevano chi fossero. Hanno pensato che volessero far loro del male», aggiunge Raúl, ad Atalaia insieme con Marcos, presidente dell’associazione Amayi, e Alejandro Dunu, cacique di Soumeredes. «Sono qui con i miei parentes, come fra indigeni ci chiamiamo, per dire al Perù di fermare l’estrazione. Chiediamo ai politici di uscire dai loro uffici e venire a conoscere la valle. Devono guardare, toccare, annusare i nostri alberi prima di decidere di distruggerli. Loro sono vivi. E danno vita», afferma in perfetto portoghese. Gli fa eco Andrés Chapiama-Wadick, presidente dell’Associação povo Mayoruna. Berretto da baseball calato sugli occhi e abbigliamento sportivo, Andrés ha lasciato la sua comunità, Cruzeirinho, a otto giorni di navigazione, per lavorare ad Atalaia assieme alle istituzioni e proteggere i diritti dei Mayoruna e degli altri popoli del Javarí. Un impegno che porta avanti da anni. Poco più che adolescente, Andrés ha partecipato alle proteste per la restituzione della valle ai suoi popoli. «Negli anni Novanta, il clima era incandescente. Ci hanno minacciato in ogni modo. Chi? Loro, i cacciatori di risorse. Non potevo più uscire di casa, nel 1994 hanno incendiato la nostra scuola. Il riconoscimento del 2001 ha segnato uno spartiacque», sottolinea. «Ora, però, stiamo tornando indietro». A preoccupare Andrés non è solo la pressione del greggio sul Jaquerana. «Sentiamo stringersi il cerchio. Da ovest, cresce la pressione dei narcos. Da sud, si avvicinano gli allevatori di bestiame e i coltivatori di soia: sono a meno di sessanta chilometri dalla nostra terra. Da nord ed est arrivano i taglialegna illegali, i pescatori di frodo e i cacciatori d’oro». Le autorità hanno scoperto di recente quattro macchine per l’estrazione del metallo nel tratto del fiume Jandiatuba all’interno dell’area indigena. Un’altra denuncia, non confermata, ha segnalato la presenza di 46 chiatte. «I trafficanti di legname sono ovunque. Hanno ucciso molti parentes. E se non lo fanno loro, ci pensano l’epatite, la malaria o il diabete. L’assistenza sanitaria è precaria e gli ultimi governi hanno progressivamente tagliato i fondi per la salute indigena. Nella mia comunità, su 75 famiglie, cinque persone sono state stroncate dall’epatite di recente»: Raimuno Iuí è il cacique di Nova Esperança, una delle sette comunità del popolo Kanamarí. «Da noi, a Kavan, in un mese abbiamo perso tre dei 24 nuovi nati per le infezioni intestinali. Non abbiamo acqua potabile, così solo i più forti sopravvivono. Non è giusto. Ci stanno rubando la possibilità di futuro», aggiunge Francisco Makina, in un portoghese zoppicante. «Abbiamo solo le elementari. Vorrei continuare a studiare come tecnico, ma come faccio?». Manuel Chorimba, invece, è cresciuto in città. I genitori hanno deciso di spedirlo da Maranao ad Atalaia perché potesse frequentare anche medie e superiori. Grazie al suo buon livello di istruzione, Manuel è l’unico indigeno della valle eletto per un secondo mandato consecutivo al municipio di Atalaia. «Le possibilità che mi sono state date sono una grande responsabilità. Con l’impegno politico devo difendere i diritti del mio popolo, i Marubo». Concentrata nel tratto meridionale dei fiumi Coruça e Ituí, l’etnia di circa 2000 persone vive a ridosso della frontiera con lo stato brasiliano di Acre e i suoi sterminati allevamenti di bestiame. «I latifondislo la foresta per fare spazio alle mandrie. Con loro, il conflitto va avanti da decenni. Ma negli ultimi tempi è peggiorato. Ormai avanzano a ritmo sostenuto verso la nostra terra». Oltretutto, nel 2014, Petrobras ha ottenuto la concessione di un lotto nel nord dello stato di Acre, non lontano dalla valle. Per il momento, il progetto è fermo. In base al documento, l’azienda ha però tempo fino al 2022 per iniziare l’esplorazione del giacimento e altri 27 anni per sfruttarlo. Il ricordo di quanto accaduto negli anni Ottanta lascia perplessi i nativi. Paulo Dollis Barbosa da Silva, presidente dell’Unione dei popoli indigeni della valle del Javarí (Univajavi) e anche lui marubo, è convinto che le minacce si stiano moltiplicando. «Stiamo assistendo a un salto di qualità», dice con tono fermo. L’escalation non riguarda solo la valle del Javarí. I 305 popoli indigeni brasiliani sono in allarme. A preoccuparli è la vittoria, alle ultime presidenziali, di Jair Bolsonaro. ti hanno letteralmente raso al suo lo la foresta per fare spazio alle mandrie. Con loro, il conflitto va avanti da decenni. Ma negli ultimi tempi è peggiorato. Ormai avanzano a ritmo sostenuto verso la nostra terra». Oltretutto, nel 2014, Petrobras ha ottenuto la concessione di un lotto nel nord dello stato di Acre, non lontano dalla valle. Per il momento, il progetto è fermo. In base al documento, l’azienda ha però tempo fino al 2022 per iniziare l’esplorazione del giacimento e altri 27 anni per sfruttarlo. Il ricordo di quanto accaduto negli anni Ottanta lascia perplessi i nativi. Paulo Dollis Barbosa da Silva, presidente dell’Unione dei popoli indigeni della valle del Javarí (Univajavi) e anche lui marubo, è convinto che le minacce si stiano moltiplicando. «Stiamo assistendo a un salto di qualità», dice con tono fermo. L’escalation non riguarda solo la valle del Javarí. I 305 popoli indigeni brasiliani sono in allarme. A preoccuparli è la vittoria, alle ultime presidenziali, di Jair Bolsonaro.

Brano tratto da Frontiera Amazzonia, di Lucia Capuzzi e Stefania Falasca, Emi editore.