Israele-Palestina: se l’informazione, i social e la censura sono armi non convenzionali

Si può vincere una guerra con la censura? Dipende. Quello che è successo nelle ultime ore ad alcuni giornalisti che volevano postare sui propri social fotografie sull’escalation di violenza israelo-palestinese richiama un antico problema.

Nel 1855 Roger Fenton, il primo reporter di guerra, venne mandato dalla casa reale britannica a scattare foto sulla guerra di Crimea. Già, ma con che scopo? Dimostrare che gli inglesi stavano dalla parte giusta e che comunque la guerra non era poi così orribile come i sopravvissuti la raccontavano. Nelle foto di Roger Fenton si vedono ufficiali fumare tranquillamente seduti, oppure in posa marziale a cavallo. Niente sangue, ferite o morti. A dire il vero un ferito con tanto di benda sulla testa c’era, ma l’occhio cade sulla donna che gli offre soccorso.

Cambio di secolo e di contesto. 1972. Nick Ut, un fotografo sudvietnamita scatta la foto che ritrae una bambina nuda, con la pelle ustionata, che fugge dal villaggio appena bombardato con il napalm. Insieme ad un’altra foto, quella di Eddie Adams che ritrae un generale sudvietnamita che uccide un prigioniero con un colpo alla tempia, hanno indubbiamente aiutato il movimento pacifista a fermare la guerra statunitense in Vietnam. Ne era conscio anche l’allora presidente Nixon che cercò di fermarne la pubblicazione. Come si vede il fotogiornalismo, in un conflitto, può diventare un’arma non convenzionale. Da qui la sua importanza. Anche nell’era dei social.

Veniamo alla guerra israelo-palestinese di questi giorni. Due giornalisti, Alberto Negri e Antonella Napoli, si sono visti bloccare momentaneamente da Facebook i loro post che rappresentavano gli effetti dei missili israeliani su Gaza. Entrambi rivendicano il loro diritto di informare e assicurano che rifuggono dalla “pornografia del dolore”. Marco Cesario lo racconta sul sito di Articolo21 aggiungendo che censure analoghe sono scattate contro gli intellettuali palestinesi Mohammed Al-Kurd, Yasmin Dabat e Nadim Nashif. Quest’ultimo, direttore della ONG 7amleh, sostiene che la tagliola viene applicata dai social di proprietà di Zuckerberg grazie ad un “esercito di troll” israeliano che segnala all’azienda nordamericana cosa censurare. Lo scenario descritto da Nadim Nashif non è certo campato per aria. Lo abbiamo raccontato anche nell’ultima edizione del Festival dei Diritti Umani dedicato all’Algoritmocrazia: c’è davvero un esercito formato da migliaia e migliaia di persone che devono scandagliare una mole impressionante di messaggi, foto, video e decidere se censurarli o permetterli. Spesso sono persone sottopagate, precarie, che lavorano per diverse piattaforme, in tandem con i software che selezionano le parole chiave. Con quali criteri nessuno lo sa: altrimenti perché una foto di revenge-porno può passare e la foto che ritrae la bambina vietnamita che fuggiva dal villaggio incendiato viene invece bloccata? Un tema delicatissimo, perché un processo sommario imbastito da un’azienda privata può decretare la censura di un’immagine della guerra israelo-palestinese, togliendo al giornalista il diritto di informare e alla giustizia il potere giurisdizionale.

Danilo De Biasio

 

Il Festival dei Diritti Umani, in collaborazione con Articolo21, ha affrontato il complesso rapporto tra media tradizionali e social network, con un talk a cui hanno partecipato Raffaele Lorusso (FNSI), Laura Nota (Università di Padova), Roberto Reale (scrittore), Anna Masera (La Stampa), Vincenzo Vita (Aamod), Arturo Di Corinto (giornalista), Elisa Marincola (Articolo21).