I palestinesi non sono polvere da nascondere sotto il tappeto. Sono persone in carne ed ossa che da troppi anni subiscono violenze indicibili da parte del Governo israeliano e gravissimi errori da parte dei loro governanti. Si possono stringere accordi internazionali, possono cambiare i leader di Israele, Stati Uniti e nazioni arabe, ma prima o poi la questione palestinese torna a bussare alla porta della storia.
Non si può chiedere che i palestinesi lo facciano con delicatezza, chiedendo permesso, chinando il capo, come devono fare ogni volta che devono attraversare il muro che li divide da Israele: quando i riots esplodono vuol dire bastoni, lacrimogeni, sassi, violenze, arresti. È sempre successo così, ovunque. E chiedere, come fanno i ministri di tutto il mondo, ad entrambe le parti – Israele e ANP – di deporre le armi significa, nei fatti, comportarsi come Ponzio Pilato.
I diritti sono violati principalmente da una parte, quella israeliana. Il governo di Tel Aviv può usare tutta la propaganda di cui dispone ma, appunto, è solo propaganda. Human Rights Watch ha recentemente accusato Israele di politiche di apartheid nei confronti dei palestinesi. Chiunque abbia messo piedi in Israele e nei Territori Occupati lo ha visto con i propri occhi.
Per molti anni la giustificazione usata nelle Cancellerie era più o meno questa: israeliani e palestinesi potranno convivere quando ci sarà lo scambio sicurezza / pace. Su Haaretz Gideon Levy, una delle firme più illustri e più critiche verso Netanyahu, ha recentemente scritto che a “Bibi” va riconosciuto di essere riuscito a ridurre enormemente «lo spargimento di sangue tra i due popoli […] Non sono stati anni di pace ma nemmeno anni di guerra». Anche i numeri danno ragione alle analisi del giornalista israeliano e dunque possiamo dire che la sicurezza, una delle contropartite dell’accordo fra Tel Aviv e Ramallah, è stato raggiunto e che è arrivata l’ora di concedere l’altra metà, cioè la pace? I fatti di questi giorni sono lì a dimostrare che quell’equazione – sicurezza in cambio di pace – era una frottola. Perché? Principalmente per ragioni politiche: la studiosa inglese Mary Kaldor ci ha spiegato nell’edizione 2019 del Festival dei Diritti Umani che «le guerre moderne si fanno non per vincerle ma per continuarle. Solo così si raccolgono gli utili dello spargimento di sangue: l’economia di guerra, le spese per la sicurezza, lo stato di emergenza prolungato, la continua sollecitazione degli estremisti di entrambe le parti». Follow the money, diceva “Gola profonda”, la fonte che fornì le informazioni giuste al Washington Post per scoprire lo scandalo Watergate, e vale anche in questo caso: secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) tra il 2016 e il 2020 è in Medio Oriente che si fanno più affari bellici: Israele ha esportato il 59% di armi in più, l’Arabia Saudita ha aumentato le importazioni del 61%, il Qatar del 361%. Senza contare che le industrie israeliane sono leader nel mercato dell’intelligenza artificiale usate nei sistemi di sicurezza, potendola sperimentare in massa sui palestinesi. A chi conviene dunque tenere alta la tensione in Medio Oriente?
Danilo De Biasio