“Fino all’assassinio di Rabin c’era una relazione, una dinamica vera con i palestinesi e quando ero piccola mi portavano a Gerusalemme, andavano a visitare le chiese e lasciavano noi bambini in un caffè arabo nella città vecchia, e il proprietario, palestinese, ci teneva tutta la giornata. Oggi è impensabile. C’erano disaccordi, certo, ma c’era uno sforzo comune, la politica ci provava.”
È il racconto di Shirel Amitay, regista francoisraeliana di Rendez-Vous à Atlit, dal 16 giugno distribuito nelle sale italiane da Parthenos con il titolo La casa delle estati lontane, dopo essere stato ospitato dalla prima edizione del Festival dei Diritti Umani di Milano.
La casa delle estati lontane è ambientato a Atlit (Israele), dove tre sorelle si ritrovano nel 1995 per vendere la casa ereditata dai genitori. Tra complicità, risate, rancori e strani ospiti che seminano un allegro disordine, ritornano in superficie dubbi e vecchie questioni, che fanno sembrare la convivenza un felice guazzabuglio. La cronaca familiare si intreccia con quella dell’attualità e il 4 novembre, quando il processo di pace viene compromesso dall’uccisione di Rabin, le tre sorelle si rifiutano di abbandonare le loro speranze.
“Ho lasciato Israele prima della morte di Rabin dicendomi, tornerò quando ci sarà la pace. E non ci sono più tornata… Quando Rabin e Arafat hanno cominciato a dialogare, mi son detta: “ci siamo”. Quando hanno assassinato il premier ho pensato: “continueranno a dialogare”. Invece tutto è peggiorato. Il mio film in Francia è uscito due settimane dopo la strage di “Charlie Hebdo”: è stata dura. Gli estremisti che hanno ucciso Rabin sono gli stessi di “Charlie Hebdo”, gli stessi degli attentati di novembre, hanno le stesse radici. E allora prima di giudicare sempre gli altri dovremmo guardare chi siamo noi“.
L’intervista a Shirel Amitay – dal titolo “Israele, la pace è donna” – è stata pubblicata su L’Avvenire, all’indomani dell’attacco armato al mercato di Tel Aviv nel quale quattro persone sono rimaste uccise e per il quale sono incriminati due cugini palestinesi di Yatta, un villaggio vicino a Hebron.
In seguito all’attacco, Israele ha sospeso i permessi di ingresso di 83mila palestinesi della Cisgiordania, rilasciati per le visite familiari e le preghiere del Ramadan a Gerusalemme e per i viaggi via Tel Aviv.
“Ho vissuto in Israele fino a diciassette anni. È un Paese meraviglioso e difficile, perché per una ragazza crescere in guerra e non capire è difficile. Poi, quando si capisce, diventa ancora più difficile. Io sono di cultura giudaicocattolica, in casa mia si festeggia il Natale, e sono cresciuta in un Israele multiculturale, composto da tante diverse lingue, religioni, nazionalità. Era un luogo internazionale, oggi si è rimpicciolito e rinchiuso in se stesso”
Shirel Amitay
Quello al mercato di Tel Aviv dell’8 giugno è considerato uno degli attacchi più sanguinosi, dopo quelli che lo scorso ottobre hanno portato l’uccisione di più di 30 israeliani e 200 palestinesi.