di Danilo De Biasio
“Le parole sono importanti!”. Non solo nei film di Nanni Moretti. Anche nei trattati internazionali. Perché la scelta di una parola può creare effetti a catena dirompenti.
Quando all’ultimo minuto della conferenza Cop26 il rappresentante indiano ha proposto di modificare il testo finale togliendo “phase out” sostituendolo con “phase down” ha cambiato l’intero senso del documento conclusivo. Non più eliminare l’uso del carbone ma ridurlo. Una differenza non solo lessicale, ma pratica. Prolungare l’uso di quel combustibile significa continuare a produrre ma anche continuare a inquinare …
Contenti alcuni governi – le “fabbriche-mondo” India e Cina – ma tutto sommato non dispiaciuto il resto del mondo, anche noi che compriamo quei prodotti. Altrimenti l’emendamento “phase out/phase down” non sarebbe passato.
A Glasgow dunque è andata in scena la tragicommedia della complessità e dell’interdipendenza. Non è semplice decidere che tutti debbano ridurre l’uso di sostanze climalteranti se le nazioni meno forti ricordano che loro sono state finora sfruttate e i loro abitanti non hanno goduto dei benefici economici delle nazioni ricche. Il buon senso suggerirebbe esattamente l’opposto: occorre una riduzione di tutti gli inquinanti, in modo equo, ma generalizzato. Perché il buco dell’ozono o lo smog non si fermano ai confini nazionali. E invece a Glasgow il buon senso ha perso.
Già nel 2018 il Festival dei Diritti Umani si è occupato della distruzione dell’ecosistema definendola la più grande violazione dei diritti umani, perché travolge la salute, il lavoro dignitoso, la libertà di espressione, la vita…
Due insegnamenti da quell’edizione del Festival: il primo è che nemmeno il più supercalcalcolatore dei supercalcolatori o il più Nobel dei Nobel è in grado di stabilire gli effetti del surriscaldamento del pianeta; il secondo è che quell’aumento di temperature indotto dall’essere umano sta provocando danni ovunque e, in alcune zone del mondo, producendo effetti particolarmente nefasti.
Volete la prova? Mettete davanti a voi planisfero: noterete che dove si concentrano le crisi climatiche quasi sempre scoppiano guerre, rivolte, esodi. Contemporaneamente avrete sicuramente conoscenti che si lamentano per una grandinata “mai vista prima!” che ha distrutto la loro auto. Dal macro al micro. E ancora: non spiega tutto del Covid, ma la distruzione di boschi e foreste – causata dall’espansione delle metropoli – ha fatto sì che l’homo sapiens e animali domestici entrassero in contatto con specie selvatiche potenziali propagatrici di zoonosi.
Conclusioni? Non possiamo prevedere il futuro, ma dobbiamo provare a invertire la rotta. Lo dicono in tutte le lingue, con tutta la loro creatività e forza, i giovani che stanno riempiendo le piazze. Proprio perché non vogliono ipotecare la loro vita chiedono giustizia climatica. Un ecosistema rispettoso della vita di tutto il creato, che non scarichi sulle persone più povere il costo di uno sviluppo per pochi privilegiati, un modo per dire che occorre produrre e consumare di meno. Altro che giardinaggio giovanile o blablabla come alcuni leader politici e intellettuali snob descrivono le mobilitazioni di Greta and Co.
Per un Festival come il nostro è vitale essere in mezzo a questa onda, per coglierne il senso, per poterlo condividere con giovani e meno giovani sensibili al tema dei diritti umani.
Per celebrare la Giornata Mondiale dei Diritti Umani, il 10 dicembre 2021 abbiamo scelto proprio il tema dell’ambiente. Insieme al Film Festival Diritti Umani Lugano, ospiteremo sulla piattaforma festivaldirittiumani.stream il film di Slater Jewell-Kemker YOUTH UNSTOPPABLE, insieme a un’intervista alla giovane regista e attivista e a un approfondimento sugli esiti per i diritti umani della COP26, con Marirosa Iannelli e Alberto Giuffrè