I tentativi di ridicolizzare Greta e il movimento che ha risvegliato dimostrano che chi si sta mobilitando per evitare il collasso del pianeta Terra ha colpito nel segno. Noi del Festival dei Diritti Umani avevamo definito l’anno scorso la distruzione dell’ecosistema la più globale e pericolosa delle violazioni dei diritti umani. Nella settimana di mobilitazione internazionale di #FridaysForFuture abbiamo chiesto a Gianluca Ruggieri, vicepresidente ènostra.
Il 20 agosto 2018 una giovane donna decide di non andare a scuola e di sedersi davanti al parlamento svedese con un cartello di cartone dipinto a mano.
Greta Thunberg, 16 anni non ancora compiuti, usciva da un periodo difficile in cui faticava a relazionarsi con gli altri e ad alimentarsi. Una domanda la assillava: perché dovrei preparami al futuro quando gli scienziati mi dicono che a causa dei cambiamenti climatici rischio di non avere un futuro? La protesta di Greta continuò ogni giorno fino alle elezioni svedesi del 9 settembre e fu poi ripetuta ogni venerdì.
Una delle caratteristiche fondamentali di ogni rivoluzione è il tempismo. Un gesto semplice come quello di Greta Thunberg è evidentemente arrivato nel momento giusto e in pochi mesi è diventato la leva di un movimento globale di dimensioni impensabili solo un anno fa. La richiesta dei giovani che riempiono le piazze in ogni parte del mondo è sostanzialmente una: ascoltate gli scienziati e dite la verità. Il movimento dei Fridays for Future non propone soluzioni, ma evidenzia le contraddizioni di fondo su cui si è sviluppata la nostra società. Dice che il re è nudo.
Dopo il primo sciopero globale del 15 marzo e il secondo del 24 maggio il movimento ha proclamato una settimana di mobilitazione internazionale dal 20 al 27 settembre 2019, in occasione del vertice ONU sul clima in programma il 23 settembre a New York, durante il quale almeno 60 capi di stato e di governo da tutto il mondo dovrebbero dichiarare i propri rinnovati impegni di riduzione delle emissioni.
In attesa degli esiti del vertice, gli occhi sono pieni delle immagini delle piazze piene in tanti diversi paesi: Australia, Indonesia, Uganda, Sudafrica, India, USA, Germania. Le prime stime parlano di quasi 4 milioni di partecipanti complessivi, in attesa di quello che accadrà il prossimo venerdì. A ogni edizione lo sciopero globale per il clima coinvolge più persone in più città di più nazioni. Un’onda apparentemente inarrestabile.
Nella storia dell’avanzamento dei diritti le conquiste reali si sono ottenute quando le lotte sono state portate aventi direttamente da chi ne aveva titolo. È successo con i movimenti operai fin dall’800, con quelli per i diritti civili, con quelli femministi.
Sono i giovani quelli che hanno più da perdere dall’inazione delle attuali classi dirigenti sul clima e sono quindi i giovani quelli che possono vincere la battaglia. E i giovani hanno adottato finora le tecniche della nonviolenza, che consentono al movimento di essere inclusivo e che spesso in passato si sono rilevate estremamente efficaci nelle lotte per l’allargamento dei diritti.
È molto significativo che una delle parole d’ordine del movimento sia quella della giustizia climatica. Si parte da un doppio riconoscimento: chi è più responsabile della crisi climatica con tutta probabilità sarà meno colpito dalle sue conseguenze. Allo stesso tempo chi ne è meno responsabile ne pagherà le conseguenze più catastrofiche. Le faglie delle disuguaglianze sono almeno tre.
La prima è una disuguaglianza generazionale, che diventa la potente leva dei movimenti di questi mesi: per molto tempo i militanti ambientalisti hanno detto “siamo preoccupati per il futuro dei nostri figli”. Oggi i figli riempiono le piazze reclamando il loro diritto al futuro.
Ma una seconda faglia importante di disuguaglianza è quella tra diversi paesi, quello che nelle dichiarazioni ufficiali viene descritto come “responsabilità comuni ma differenziate”. Non tutti i paesi sono responsabili allo stesso modo della crisi climatica, sia che guardiamo a quanto successo negli ultimi 150 anni, sia se guardiamo a quello che sta succedendo ora. Ci sono interi paesi a rischio sopravvivenza, essendo più esposti all’innalzamento dei mari o alla desertificazione: sono paesi con responsabilità minime nel computo delle emissioni globali.
La terza faglia di disuguaglianza è quella all’interno dei singoli paesi: secondo Oxfam il 10% di popolazione più ricca è responsabile del 50% di emissioni, il 50% più povero è responsabile del 10% delle emissioni. Senza scardinare l’attuale assetto delle disuguaglianze sarà molto difficile riuscire a ottenere gli obiettivi di riduzione delle emissioni.
Il movimento globale giovanile ha perfettamente chiaro che la battaglia sul clima è una battaglia sui diritti. Per questo il terzo sciopero globale è stato aperto alla partecipazione di tutti, con uno specifico appello agli adulti. Le organizzazioni sindacali globali hanno risposto, ancora troppo timidamente. Ma per ottenere politiche realmente efficaci sarà necessaria la partecipazione di tutti. L’appuntamento è allora per il quarto sciopero globale, perché la battaglia è destinata a continuare.
La fotografia è di Leonardo Brogioni