Mary e Anna sono solo due delle migliaia di donne del Sud Sudan che testimoniano gli stupri subiti durante il conflitto che minaccia questo fragile Stato sin dalla sua istituzione nel 2011.
Gariwo
Ci sono donne lasciate in vita ma orribilmente sfregiate e ferite nell’anima dalle violenze dei miliziani, altre costrette ad assistere allo stupro delle figlie, signori della guerra che si circondano di harem di spose bambine.
L’uso sistematico dello stupro come arma di guerra è infatti ormai denunciato non solo dalle ONG, ma anche dalla stessa ONU, come si legge in questo articolo del New York Times. Vi si legge, tra l’altro, che tra i soldati vige il detto “fai e prendi tutto quello che puoi”, compreso il corpo delle donne e delle ragazzine.
Anche Gariwo ne parla da anni. Forse un aspetto meno noto della difficile condizione femminile in Sud Sudan è che esistono tentativi di auto-organizzazione delle donne, almeno in alcuni campi profughi. Si tratta di aree “amichevoli per le donne” istituite sotto alcune tende ad esempio nel campo di Malakal, dove le donne, che spesso non sanno più dove siano finiti i loro congiunti maschi, possono fare di tutto, dal truccarsi a vicenda a condividere problemi, traumi e progetti e aiutarsi l’un l’altra.
In questo modo le donne conservano non soltanto una propria dignità, ma anche ciò che rimane dei vincoli sociali nelle loro comunità distrutte dalla guerra. Lottano contro strutture concepite per richiedenti aiuto maschi e adulti, quando spesso in realtà il perno delle famiglie sono ragazze giovani. Se si allontanano dal campo rischiano di essere violentate o uccise dai soldati governativi, e in casi più rari da miliziani d’opposizione, ma come afferma Masumi Yamashina, una specialista dell’UNICEF sulla violenza di genere, “se cessassero di occuparsi delle famiglie verrebbe meno ogni possibilità di salvare vite umane in Sud Sudan”.
Gariwo
Ci sono donne lasciate in vita ma orribilmente sfregiate e ferite nell’anima dalle violenze dei miliziani, altre costrette ad assistere allo stupro delle figlie, signori della guerra che si circondano di harem di spose bambine.
L’uso sistematico dello stupro come arma di guerra è infatti ormai denunciato non solo dalle ONG, ma anche dalla stessa ONU, come si legge in questo articolo del New York Times. Vi si legge, tra l’altro, che tra i soldati vige il detto “fai e prendi tutto quello che puoi”, compreso il corpo delle donne e delle ragazzine.
Anche Gariwo ne parla da anni. Forse un aspetto meno noto della difficile condizione femminile in Sud Sudan è che esistono tentativi di auto-organizzazione delle donne, almeno in alcuni campi profughi. Si tratta di aree “amichevoli per le donne” istituite sotto alcune tende ad esempio nel campo di Malakal, dove le donne, che spesso non sanno più dove siano finiti i loro congiunti maschi, possono fare di tutto, dal truccarsi a vicenda a condividere problemi, traumi e progetti e aiutarsi l’un l’altra.
In questo modo le donne conservano non soltanto una propria dignità, ma anche ciò che rimane dei vincoli sociali nelle loro comunità distrutte dalla guerra. Lottano contro strutture concepite per richiedenti aiuto maschi e adulti, quando spesso in realtà il perno delle famiglie sono ragazze giovani. Se si allontanano dal campo rischiano di essere violentate o uccise dai soldati governativi, e in casi più rari da miliziani d’opposizione, ma come afferma Masumi Yamashina, una specialista dell’UNICEF sulla violenza di genere, “se cessassero di occuparsi delle famiglie verrebbe meno ogni possibilità di salvare vite umane in Sud Sudan”.