Un premio al faticoso tentativo di trovare un dialogo nazionale, dove rimangono molte contraddizioni
da Q Code Mag
10/10/2015
“Contributo decisivo alla costruzione di una democrazia pluralistica nel Paese, sulla scia della Rivoluzione del Gelsomino del 2011”. Questa è la motivazione addotta dal Comitato del Nobel per la Pace, assegnato al cosiddetto “Quartetto del Dialogo Nazionale” della Tunisia: il sindacato UGTT, la confederazione degli imprenditori UTICA, la Lega Tunisina per i Diritti dell’Uomo (Ligue Tunisienne des Droits de l’Homme, LTDH) e l’ordine degli avvocati.
Si tratta di un segnale politico forte dopo gli attentati del Bardo e di Sousse, un ribadire che la Tunisia deve rimanere la success story di quella Primavera 2011 tanto ricca di speranza quanto avara di cambiamenti positivi. Tra le righe del comunicato si legge anche la volontà di sottolineare come la transizione tunisina sia il frutto di un confronto tra partiti politici e rappresentanti della società civile. In particolare, il Comitato per il Nobel fa riferimento a un momento ben preciso del percorso politico del Paese dopo Ben Ali, l’estate del 2013.
Dopo gli omicidi di Choukri Belaid e Mohammed Brahmi, entrambi membri dell’opposizione, i tunisini riscendono in piazza, organizzando una serie di manifestazioni contro le lungaggini dell’Assemblea Costituente e il governo di transizione – a cosiddetta “troika” – guidato da Ennahda con due formazioni progressiste, Congrès pour la République ed Ettakatol.
A livello politico inizia un lungo e faticoso processo di negoziazioni tra le quattro organizzazioni del Quartetto, Ennahda, Nidaa Tounes – formazione politica nata nel 2012 e che raccoglie al suo interno diversi politici di lungo corso, attivi con i precedenti presidenti Bourguiba e Ben Ali – e il Fronte Popolare, un raggruppamento – costituitosi anch’esso nel 2012- di partiti di sinistra. Tali negoziazioni porteranno nel gennaio 2014 alla nomina di un governo tecnico che, a seguito dell’approvazione della nuova Costituzione, traghetterà a fine anno la Tunisia alle elezioni legislative e presidenziali.
La Tunisia è ora governata da un governo di coalizione tra Nidaa, Ennahda e due partiti di ispirazione liberale, Afek Tounes e Union Patriotique Libre. Il presidente, eletto al ballottaggio, è Beji Caid Essebsi, classe 1926, leader di Nidaa. A inizio 2015 la Tunisia si presentava dunque come “la transizione modello”: niente più minaccia di una dittatura islamista di Ennahda, il “laico” Nidaa (ma sulla sua laicità ci sarebbe ampiamente da discutere) con Essebsi presidente si afferma sulla scena politica per volontà delle urne. Una storia di successo, specialmente se confrontata con i conflitti in Siria, Libia e Yemen o con il giro di vite autoritario in Egitto. Ma a guastare questa immagine arrivano gli attentati: prima il Bardo e poi Sousse.
La minaccia, ora, è il terrorismo. I terroristi in casa. I giovani che partono per combattere con l’ISIS o altre organizzazioni. La sicurezza diventa una preoccupazione prioritaria, dopo Sousse viene imposto lo stato di emergenza (ritirato da poco) e il 24 luglio viene approvata una legge anti-terrorismo molto controversa e severamente criticata da Human Rights Watch e altre ong.
Sempre nell’estate 2015, due anni dopo le manifestazioni di piazza contro la troika, il governo tunisino annuncia che le istituzioni starebbero lavorando a una “legge di riconciliazione” che dovrebbe regolare la posizione giuridica di quanti, dai funzionari di Stato agli uomini d’affari, avrebbero commesso crimini di natura economico-finanziaria. Si tratta di una questione assai delicata e di un processo ancora in divenire, ma diverse voci si sono levate contro questo progetto di legge: da una parte saboterebbe i lavori dell’Istanza di Verità e Dignità (IVD), incaricata di investigare sui crimini commessi sotto Bourguiba e Ben Ali; dall’altra cancellerebbe con un colpo di spugna le responsabilità di quanti si sono arricchiti durante la dittatura a spese di larga parte della popolazione tunisina.
Alcune manifestazioni di modesta scala hanno avuto luogo agli inizi di settembre, cui spesso sono seguiti aspri confronti con le forze dell’ordine, anche per il divieto di raduni in spazi pubblici imposto dall’allora vigente stato di emergenza.
Se la decisione del Comitato per il Nobel viene salutata con favore, come un’indicazione di sostegno alla Tunisia, è comunque impensabile non interrogarsi sulla sua transizione. In un contesto di affermazione di nuovi attori e di ridefinizione dei rapporti di potere, per troppo tempo la dicotomia Islam/Laicità ha offuscato la lettura che abbiamo dato (e che diversi tunisini stessi hanno dato) dei processi politici in Tunisia e nella regione.
Per troppo tempo una transizione di successo è stata banalizzata ai “laici” che vincono alle urne. E quando si spegnevano i riflettori sui seggi e sui palazzi della politica e sui negoziati l’attenzione volava altrove. Islam, laicità, laicità, Islam. Terrorismo. Il terrorismo che riempie i giornali, le tv, i social network. Il terrorismo che minaccia la transizione tunisina e che va sconfitto a ogni costo, anche promulgando una legge assai controversa.
Se si segue la Tunisia con una certa continuità, ci si trova a questo punto a ripetere come un trito ritornello di quanto il Paese sia attraversato da profonde fratture sociali e geografiche. Islam/laicità, ma se si gratta un poco questa patina che fa da racconto dominante si trovano problemi sociali di esclusione di varia natura, regioni troppo spesso dimenticate dalla politica della capitale, che non hanno beneficiato di strategie di sviluppo organico né di una qualsivoglia redistribuzione regionale.
Quanto sarebbe importante parlare di ciò, anche a costo di ripetersi, anche a costo di rovinare la festa per il Nobel. Se questo premio è un riconoscimento alla speranza, sarebbe importante, sarebbe bello, che questa speranza arrivasse a chi vive in certi quartieri di Tunisi oppure a Kasserine, a Sidi Bouzid, a Gafsa, a Siliana e via elencando.
Il percorso seguito dalla Tunisia tra il 2013 e il 2014 non è stato privo di elementi interessanti e positivi, soprattutto se si pensa che quasi contemporaneamente l’Egitto assisteva all’incarcerazione di Morsi, al massacro di Rabia al-Adawiya, all’arresto e alle condanne a morte di tantissimi esponenti dei Fratelli musulmani e all’instaurazione di un ordine politico fortemente autoritario. Il Nobel appone un sigillo di qualità alla Tunisia, un incoraggiamento per il futuro.
Ma tale incoraggiamento a questa transizione e alla società civile rappresentata dal Quartetto andrebbe anche esteso a tutti i tunisini organizzati in piccole ong, movimenti sociali, collettivi che lavorano lontani dal clamore dei media e dalla Storia narrata. Piccole storie, spesso in zone remote o quartieri emarginati, sulla scia di quella che andrebbe chiamata col suo nome e non con l’etichetta evocativa richiamata a Oslo: thawrat al-karama, la rivoluzione della dignità.