La distruzione del palazzo di Gaza che ospitava Al Jazeera e Associated Press non è un attacco alla libertà d’informazione. O meglio: non è solo questo. E’ la rivendicazione che Israele può fare ciò che vuole, senza il minimo timore di subire una sanzione. Il controllo dell’informazione può avvenire in mille modi, meno appariscenti e più efficaci, non è necessario far vedere in mondovisione che puoi abbattere un palazzo per zittire giornalisti e fotoreporter. Bombardare in diretta la sede dell’Associated Press e di Al Jazeera serve a dimostrare la tua sicurezza di impunità.
Attualmente il governo di Tel Aviv blocca gli ingressi di giornalisti nella Striscia di Gaza. I corrispondenti che lavorano in Israele devono essere autorizzati da un apposito ufficio governativo (Government Press Office) che rilascia una tessera provvisoria per operare. C’è da parte israeliana una diffusa capacità di condizionamento dei media mainstream. Non ci sarebbe stato bisogno di abbattere quel palazzo per tacitare due importanti media internazionali critici verso Israele: è stata un’operazione bellica con uno scopo politico smaccato.
Le reazioni a questo bombardamento da parte dei sindacati dei giornalisti sono state flebili. Il motivo? Non trovo altra spiegazione se non la debolezza con cui i singoli governi stanno affrontando questa nuova crisi mediorientale. Se Biden non trova un minuto per mostrare solidarietà al direttore di Associated Press (per ora solo la portavoce della Casa Bianca ha espresso preoccupazione) scatta una sorta di understatement anche per le associazioni di categoria.
La stessa tattica del governo israeliano – colpisco chi mi pare tanto nessuno mi processerà – si è vista in questi giorni anche per altrettanti simboli di civiltà, di luoghi che dovrebbero essere intoccabili: la clinica di Medici Senza Frontiere, la scuola cattolica delle suore del Rosario, il campo profughi di Al-Shati. La bugia con cui vengono giustificate questi bombardamenti – si nascondevano postazioni militari palestinesi – è talmente abusata che oramai non ci crede più nessuno. Ma al Governo israeliano non importa che sia credibile: interessa solo la dimostrazione della potenza del loro fuoco, non del giudizio dell’opinione pubblica. Tanto meno dei tribunali internazionali. Ne ha scritto con equilibrio e competenza su “il Mulino” Marina Calculli, spiegando che «quello che rappresenta davvero un’eccezione nella società internazionale contemporanea è piuttosto la neutralizzazione e la criminalizzazione sistematica di ogni tentativo di richiamare il governo di Israele alle sue responsabilità giuridiche internazionali. In altri termini, a essere eccezionali non sono tanto i crimini di Israele, che hanno purtroppo paralleli nel passato e nel presente, quanto la capacità di Israele di commettere crimini con un’esclusiva garanzia di impunità».
Vale anche per Hamas? Certo, sparare migliaia di razzi – a proposito: ma chi glieli ha venduti? – sulle città israeliane colpendo civili è crimine di guerra. Un bambino morto è un bambino morto, i sopravvissuti odieranno i nemici da una parte e dall’altra del muro. Una sorta di faida ininterrotta tra vicini. I leader del radicalismo islamico, paradossalmente, sperano di poterla fare franca proprio grazie all’ombra proiettata dall’impunità dei governanti israeliani, a volte con la protezione delle dittature petrolifere del mondo arabo.
Spezzare questa catena di odio è difficile, ma non è stando zitti che diamo una chance alla pace. Dare visibilità ad ogni forma di contestazione dello status quo è quanto di più efficace possiamo fare. Partendo da qui: ebree ed ebrei italiani che hanno il coraggio di sfidare l’ira della loro comunità dicendo “not in our names” e da Gad Lerner che invita a dimostrare quella lucidità che permetta a ebrei e palestinesi di marciare insieme per la pace.
Danilo De Biasio